sabato 28 marzo 2009

Jean-Claude 1437



“His voice was silken whispers in the small hours of night. Damn, he was good.”

-Guilty Pleasures-

Maman. Claudette. E' questa la morte? E' questa nebbia che mi avvolge i sensi? E' questo abbraccio freddo come la terra a dicembre?
«Ancora un poco mio caro e sarà tutto finito.» La voce dolce di Lisette gli arrivò soffocata dalla coltre inoppugnabile della propria stanchezza. Come poteva finire? Non era così che doveva iniziare?
Maman. Claudette. Che cosa ho fatto?

«Monsieur, vada a casa. Ha bevuto abbastanza per stasera. Se desidera le faccio chiamare un cocchio.» Jean Berthier fissò stolidamente il rozzo viso dell'oste, pallido e informe come pasta da pane lievitata. Un ricordo improvviso lo colpì: il sabato mattina, la stanza piena di luce, maman che impastava il pane e che lo portava a cuocere nel forno dei loro signori, i Vertdulac. Era ancora a casa allora. Aveva ancora una casa. E Maman. E Claudette.
«Mi lasci in pace buon uomo e mi porti una coppa di acqua ardente, ho da pagare se è questo che la preoccupa» disse con freddezza, facendo tintinnare il contenuto di una borsa di pelle. L'oste si ritirò in silenzio scrollando le spalle. Tornò qualche minuto più tardi e posò una coppa di stagno sul tavolo di legno. Se quel damerino con l'accento di Arles voleva stordirsi e farsi rubare i denari erano affari suoi. A Aix en Provence avrebbe trovato pane per i suoi denti, pensò l'oste tornandosene dietro al bancone.
Jean fissò la superficie ambrata del liquore come se potesse leggerci il futuro. Futuro? Lui non ne aveva. Era sparito con la morte di suo figlio e di sua moglie. Era sparito per sempre. Basta Jean, si disse tracannando l'acqua ardente in un solo sorso. Il liquido gli bruciò la gola lasciandogli una piacevole sensazione di calore che dallo stomaco si diffuse alle ossa. Basta Jean. Ce la farai anche questa volta, come hai sempre fatto. Contadino a mezzadria, fanciullo da castigo, donnaiolo impenitente, arrivista senza scrupoli, conte di un casato di campagna ed ora di nuovo signor nessuno. Da quando la moglie e il figlio erano morti poco dopo il parto, il vecchio suocero l'aveva fatto cacciare.
Aveva sposato e messo incinta Gabrielle solo per i soldi e il titolo, lo sapevano tutti, ma se il figlio fosse vissuto, chissà...forse avrebbero avuto una possibilità, forse sarebbero stati felici. Troppo tardi. Come tutto nella sua vita. Sempre troppo tardi.
«Non essere triste bel giovane. Blanche può scaldarti il letto e il cuore.» Jean alzò lo sguardo incontrando gli occhi acquosi di una prostituta male in arnese: denti guasti e seno sfiorito, il suo viso precocemente invecchiato urlava “scolo” ad alta voce. Jean si alzò in piedi, leggermente malfermo sulle gambe e gli lanciò un denaro «Pago per non essere disturbato Madame.»
«Come preferisci bello!» Rispose la donna afferrando al volo la moneta. Di quei tempi non c'era spazio per l'orgoglio ferito, solo per la fame e la miseria.
Bello. L'aveva chiamato bello. Jean colse il suo indistinto riflesso nel vassoio di peltro appeso alla parete. Gli avevano sempre detto che era bello.
«Ti ho scelto perchè hai un bel viso» gli aveva confessato Madame de Vertdulac. «Sposami! Sei così bello!» Gli aveva sussurrato Gabrielle. «Bello, bello!» Gli avevano detto innumerevoli bocche, corpi caldi senza volto alcuno. E Claudette? Maman diceva che erano come due gocce d'acqua a parte gli occhi: neri come il giaietto quelli di Claudette, di un profondissimo blu i suoi. Non si era mai visto, non conosceva il suo viso. Ma se assomigliava a Claudette doveva essere bello. Lei era la più bella del mondo.

La vita lo abbandonava in lunghi sorsi mentre il torpore regnava sovrano sui suoi sensi. Avvertiva a malapena mani lisce come seta sostenerlo saldamente. Labbra avide di sangue sul suo collo. Maman. Claudette. Vi potrò vedere ancora?

Uscì barcollando nel vicolo buio dirigendosi verso il suo baio. Forse una cavalcata gli avrebbe fatto bene, forse avrebbe dissipato il languore provocato dall'alcol. Un tintinnio improvviso gli fece voltare il capo.
Una moneta rotolò ai suoi piedi e si fermò. Jean si guardò in giro, non vide nessuno e si chinò per raccoglierla. Due piedi aggraziati calzati da pianelle di seta, così incongrue in quella fredda serata, apparvero accanto alla moneta come per magia. Jean alzò lo sguardo lentamente: un lungo mantello di lana nera foderato di pelo di scoiattolo, un décolleté generoso che palpitava traslucido alla luce della luna, uno dei più bei visi che avesse mai visto, seppur seminascosto dal cappuccio. Bella e ricca. E stupida per esser sola a quell'ora di notte e in quei luoghi. Jean non potè trattenersi dal sorridere. Aveva denti forti e regolari e alla soglia dei trentanni li aveva ancora tutti. Il suo sorriso non mancava mai di colpire. Pregò che colpisse anche stavolta. Si vide dormire tra lenzuola odorose di essenze pregiate allacciato ad un corpo caldo e profumato, mentre la piccola e dignitosa locanda che lo aspettava perdeva ogni attrattiva al confronto.
«Si è persa Madame? Ha bisogno d'aiuto?» Lo disse cercando di fare con la voce quello che l'educazione e la decenza gli impedivano.
La donna alzò una mano pallida e gli accarezzò la guancia seguendo il profilo dello zigomo e indugiando sulla mascella finemente cesellata. «La tua bellezza mi ha chiamato» gli disse lei con una piacevole voce da contralto che gli sciolse le ossa. «Dovresti essere uno di noi.»
Jean non capì,ma il suo sorriso si allargò ulteriormente mentre si inchinava sfiorandole leggermente le nocche dell'altra mano con le labbra.
«Sono al suo servizio Madame.» Rialzandosi dall'inchino incontrò lo sguardo della donna e rabbrividì: le orbite rilucevano come illuminate dall'interno, le iridi erano di un solido verde, senza pupilla, un alito gelido gli sfiorò la schiena, facendogli alzare i peli sottili delle braccia.
La bocca improvvisamente arida, il sorriso appannato, Jean sentì il cuore saltargli in gola mentre dalle labbra gli scappava un tremante «Chi sei?»
«Lisette» gli rispose lei continuando a fissarlo «Puoi chiamarmi Lisette.» E poi, semplicemente, la sua mente fu altrove.

Perchè ho accettato Maman? Perchè non ti ho dato retta? Perchè non sono tornato a casa ad occuparmi di voi? Mi amerete ancora? Sarò per voi quello di sempre? Diventerò un mostro?
Si risvegliò in una stanza riscaldata dal fuoco scoppiettante di un camino, in un letto morbido, nudo e avvolto da lenzuola fresche di bucato proprio come la sua fantasia gli aveva suggerito. Solo che non si rammentava assolutamente come fosse finito lì, ché fosse stato così ubriaco? L'ultimo ricordo che aveva era l'immagine di un viso bianco nell'oscurità e un nome. Lisette. Poi il nulla.

Jean osservò la stanza lussuosamente arredata accorgendosi che era priva di finestre. Si sentiva stanco, come non si era mai sentito, stanco come se delle catene invisibili gli appesantissero i polsi e le caviglie. Un presentimento, una sensazione che non riuscì a decifrare gli strinse le viscere in un nodo di paura.
«Vedo che ti sei svegliato»
Jean sobbalzò. Avrebbe giurato di essere solo fino a un momento fa. Come aveva fatto il viso dei suoi ricordi a comparire dal nulla in poco meno di un secondo e senza fare alcun rumore? La paura fu subito sostituita dal desiderio quando si concesse il lusso di ammirare la donna in tutta la sua bellezza. Abbigliata con un'ampia sopravveste in stile fiammingo che le metteva in evidenza la vita sottile e il seno florido la sua carnagione era di un pallore lunare. I capelli biondissimi erano acconciati in un bandeaux che le incorniciava il volto e lasciati ondeggiare sulle spalle. Improvvisamente come fosse giunto lì e soprattutto perchè, perse ogni interesse per lui.
«E' da molto che sono qui Madame?»
«No. La notte è ancora giovane e a nostra disposizione.» Gli disse la donna sorridendo senza scoprire i denti. Era già la seconda volta che lo faceva, forse gliene mancava qualcuno, pensò Jean sedendosi sul letto e lasciandosi scivolare il lenzuolo fino in vita. Aveva un bel torace, liscio e dai muscoli snelli e lo sapeva. Una linea sottile di peli neri gli percorreva l'addome fino a perdersi nelle lenzuola aggrovigliate. Nero su bianco.
«Non c'era bisogno di rapirmi per assicurarsi i miei favori madame. Sarei stato ben lieto di dispensarveli.»
Lisette si avvicinò al letto sedendosi accanto a lui. «Sarò io a dispensarti i miei favori e sono sicura che li apprezzerai per quel che valgono.» Gli sussurrò giocando con i ricci neri che gli arrivavano alle spalle, ancora legati in una coda bassa.
«Non ho dubbi mia signora.» Le rispose Jean cedendo alla tentazione e sfiorando quella mano liscia e morbida.
«E' qualche settimana che ti osservo Jean Berthier.»
«Sono onorato di essere degno della sua considerazione»
«Oh sei più che degno mio caro Jean, degno dell'attenzione di Bellemorte in persona.» Lui la fissò senza comprendere e la voce di lei si abbassò di un paio di ottave, densa, cospiratrice. «Ti ho visto andar per bordelli, ubriacarti fino allo stordimento, giocarti ai dadi ogni bene, vincere e perdere.» Glielo disse accarezzandogli una guancia con tenerezza, come avrebbe potuto fare Maman, facendolo arrossire. «Non sei stanco?»
«Sì» Sussurrò lui, ed era vero. Stanco di combattere, stanco di sopravvivere.
«Cosa desideri di più al mondo?»
Il potere, pensò senza osare profferirlo. Potere per riscattare Maman e Claudette, potere per vendicarsi dei Vertdulac, che l'avevano usato e buttato come spazzatura inutile appena Francois era cresciuto, che avevano rovinato per sempre Claudette, potere per sentirsi finalmente al sicuro.
«Io ti posso dare ciò che cerchi e anche di più.»
«Come ha fatto?»
«Io ti leggo dentro Jean, sei trasparente come l'acqua, sei un libro aperto.»
La frase lo infastidì, raffreddando i suoi sensi più efficacemente di una doccia gelata.
«Non desideri l'eterna giovinezza, l'eterna bellezza?» Continuò implacabile la donna. «Non ti tasti il volto al mattino cercando i segni di quella vecchiaia che rifuggi ma che prima o poi ti raggiungerà? Non ti conti i denti sapendo che prima o poi dovrai regalarli al tempo che passa?»
Jean maledì la sua pelle pallida sentendo nuovamente il sangue affluirgli nelle guance. «La bellezza è l'unica risorsa che ho Madame. Tremo al pensiero di perderla.»
«Grazie al mio dono non la perderai.»
«Di cosa sta parlando Madame?»
La voce di Lisette riempì la stanza rincorrendosi sulle pareti, un vento freddo le fece turbinare i capelli, spegnendo il fuoco nel camino. «Davvero non hai capito cosa sono?»
Gli sfiorò le labbra in un bacio lieve. Un tocco casto che fu capace di incendiargli il corpo e la mente come mai gli era successo prima.
«Sei una maga?» Le chiese in un soffio, le labbra che gli bruciavano, che ardevano per essere baciate.
Lisette sorrise, snudando le zanne. «Sono un vampiro.»

Ti ricordi Maman, quando andavamo in chiesa la domenica? Com'era bella Arles in primavera e com'era bella St. Trophime nella luce del mattino, com'erano azzurre le sue colonne. Io avevo paura dei bassorilievi all'ingresso, dei dannati trascinati all'inferno nudi e in catene e tu mi consolavi tra le tue braccia. Avevo quattro anni e tu mi dicevi che avrei potuto essere un angelo. Come ti sbagliavi Maman, come ti sbagliavi.

Jean non osò alzare lo sguardo, fissandolo ostentatamente sulla pediera intagliata del letto. «E cosa dovrei fare per essere quello che tu sei?»
«Devi volerlo, solo volerlo.» Gli rispose Lisette rialzandogli il mento con la mano e costringendolo a guardarla. I suoi occhi erano solo occhi.
«Come?»
«Servono tre morsi rituali in cui tutto il tuo sangue deve essere succhiato.» Gli spiegò lei. «L'ultimo è il più importante, è il momento cruciale. Solo una ferrea volontà di sopravvivere può sconfiggere la morte, la magia da sola non basta.»
Un soprassalto di orgoglio lo investì malgrado la paura. «E se rifiutassi?»
Ancora tenera, da madre. «Toccati il collo.» Jean obbedì sentendo con i polpastrelli due piccoli rilievi in corrispondenza della giugulare. Era già stato morso, chissà quante volte. «Ma allora non ho mai avuto scelta!»
«Certo che ce l'hai. Puoi scegliere tra vivere in eterno o morire.»
Jean sgranò gli occhi. «Sarò immortale?»
«Finchè eviterai la luce del giorno. Gli oggetti sacri possono ucciderci. L'argento.»
«Sarò potente?»
Gli occhi di lei si incupirono, un' ombra fuggevole le pesò sul cuore, ma quando rispose lo fece con la forza risplendente della verità. «Più potente di qualsiasi mortale.»
Jean si abbandonò sui cuscini chiudendo gli occhi. Per un attimo fece finta di esser altrove. Era con Claudette allo stagno, gli spruzzi d'acqua lo facevano ridere e i fenicotteri erano una nube rosa che starnazzava.
«Hai scelto?» La voce di Lisette fu come un sasso in quello stagno. I fenicotteri sparirono e con essi Claudette. Cercò di concentrarsi per farli comparire nuovamente. «Lo sai cosa ho scelto».
«Lo devi dire ad alta voce.»
Jean aprì gli occhi abbandonando definitivamente i suoi sogni. «Sì.»
«Sì, cosa?»
«Sì, voglio vivere.»

Il terzo morso. Solo qualche goccia di sangue mi separa dalla morte o dalla vita eterna. Ti ricordi Maman? Mi dicevi di avere fede in Dio, mi dicevi di credere, di credere in Lui, di credere che un giorno ci avrebbe aiutato. Dov'era quando mi hai venduto per darmi da mangiare? Dov'era quando il Conte mi batteva al posto di Francois? Dov'era quando quel bastardo si prese la mia Claudette? Dov'era quando piangeva tra la paglia? Si era scordato di noi Maman. E ora avrà la scusa per farlo per sempre. Ma sono io che gli volto le spalle, sono io.
«Devi scegliere un nome mio caro.» Lisette aveva abbandonato il suo collo e ora gli cullava dolcemente il capo, appoggiato sul seno morbido. «Quando ti risveglierai a nuova vita avrai solo il nome a seguirti nei secoli. L'ultima eredità.»
Un nome. Un nome. Com'è lontana questa voce. Com'è lontano tutto. Buio, è tutto buio. Le palpebre sono così pesanti. Sono così stanco eppure voglio vivere. Voglio vivere. Non ti vedo più Maman. Non ti vedo più Claudette. Claudette, sorellina adorata. Claudette. Un nome. Un nome.
«Jean-Claude. Chiamatemi Jean-Claude»

domenica 22 marzo 2009

Willy Mc Coy 2001


“I couldn't tell the exact color of his suit in the dimness, but it looked like a dull tomato-red. White button-up shirt, large shiny green tie. I had to look twice before I was sure, but yes, there was a glow-in-the-dark hula girl on his tie. It was the most tasteful outfit I'd ever seen Willie wear.”

-The Laughing Corpse-


Mancava un'ora all'alba e i primi bagliori di luce cominciavano a premere alla periferia di St. Louis, anche se nel vicolo maleodorante era così scuro da sembrare ancora notte fonda. Il silenzio tombale era rotto da aspri conati di vomito intervallati da sfilze di improperi.
‹‹Porca troia, vaffanculo a me e a quando mi sono ficcato in questo pasticcio di merda.›› Un altro conato squassò l'organismo ancora in metamorfosi di Willy Mc Coy. Era così debole che non riusciva neanche a muoversi e il vomito gli era entrato pure nel naso. ‹‹All'inferno! Potevano dirmelo che si stava così male.›› Era vagamente consapevole che l'espressione "essere nella merda" nel suo caso andava presa alla lettera, ma non gli importava. Il dolore era troppo forte, si sentiva al di là di ogni cosa. Persino di quel lieve senso di oppressione che l'alba incombente avrebbe dovuto suscitare in qualsiasi vampiro che si rispetti. Ma non in Willy Mc Coy. Lui era un neonato.
‹‹Non puoi soffocare, ma se riesci a girarti di lato, starai meglio›› disse la voce. Una voce morbida e carezzevole che lo confortò come una mano fresca su una fronte divorata dalla febbre. I suoi occhi ancora annebbiati riuscirono a scorgere una bianca sagoma indistinta in cui brillavano due luci blu. Occhi chiamati dal potere nascente.
‹‹Sei tu capo?››

Tre giorni prima ...

Willy Mc Coy entrò nel Guilty Pleasure, locale specializzato in spogliarelli soprannaturali, superando velocemente il guardaroba: non era il tipo da portare con sé croci o altri oggetti sacri. Piuttosto era orientato sui portafortuna e quella sera ne avrebbe avuto proprio bisogno, pensò accarezzando distrattamente i dadi di peluche verde fosforescente appesi al suo portachiavi. Dopo la recente approvazione della legge che garantiva ai vampiri il diritto di esistenza negli Stati Uniti aveva deciso di passare a miglior vita. In senso letterale e, sperava, in senso metaforico. Aveva trentotto anni e un passato sempre presente di modesto malavitoso: piccole truffe, furti d'auto, ricettazione...era sempre stato un pesce piccolo, ai margini della società civile come di quella incivile. Il suo aspetto era anonimo e indegno di una seconda occhiata: capelli castano topo, occhi di un solido marrone, fisico piccolo e sgusciante. Le uniche particolarità che poteva vantare erano il suo gusto nel vestire, di questo lui era più che convinto, e la sua recente collaborazione coi vampiri della sua città, St. Louis. Era diventato uno dei loro informatori e proprio la frequentazione con quel mondo che improvvisamente gli si era svelato, colmo di lusinghe e piaceri sessuali, l'aveva convinto al passo che si accingeva a compiere quella sera.
Si fermò al bancone del bar: sentiva il bisogno di qualcosa di forte per prendere coraggio.
‹‹Un Southern Comfort Gwyneth!›› La barista lo ignorò completamente, continuando a riempire imperterrita le ciotole delle noccioline. Willy aspettò qualche minuto e poi ripeté ‹‹Ho detto un Southern Comfort!››
La vampira sibilò seccata un ora arrivo nella sua direzione, scoprendo le zanne affilate.
Una volta che il profumo di arancia e cannella gli accarezzò le narici e che la morbidezza del whiskey gli foderò la gola, si permise il lusso di dare un'occhiata alla fauna locale. Vampiri, qualche licantropo e soprattutto donne, orde di donne. Eccitate, su di giri e abbondantemente svestite. Erano lì per lo spettacolo naturalmente, ma forse anche lui poteva rimediare qualcosina.
Adocchiata una bionda tettona all'altro capo del bancone, si lisciò ulteriormente i capelli unti di brillantina, si sistemò i baveri del doppio petto in poliestere grigio dalla sottile gessatura verde acido e si diresse verso la vittima designata.
‹‹Ti posso offrire qualcosa da bere principessa?››
La ragazza non gli rispose finché l'amica con cui stava chiacchierando l'avvertì con una gomitata. ‹‹Guarda che quell'ometto con la cravatta allucinante sta parlando con te›› disse a voce abbastanza alta da farsi sentire.
Cravatta allucinante? pensò Willy con un moto di stizza. Cosa c'era di allucinante nella pura seta a scacchi verde e neri? Le ragazze di oggi non avevano più il senso del vestire.
La tettona scosse la testa, agitando i capelli biondi. ‹‹Non mi interessa grazie, sto parlando.››
‹‹Guarda che conosco il capo del locale.››
Un lampo di interesse si accese nei loro occhi. ‹‹O mio Dio. Conosci davvero Jean-Claude?›› strillò la tettona. ‹‹E ce lo puoi presentare?›› ansimò l'altra.
Willy cominciò a tormentarsi le pellicine delle unghie, sentendo di aver pisciato fuori dal vaso. ‹‹Bè, veramente...››
Il lampo di interesse si spense repentinamente così come si era acceso. ‹‹Lascialo perdere Mildred, è di sicuro un ballista.››
‹‹Ma io...›› protestò timidamente Willy.
Un'altra ragazza, poco lontano, urlò nella loro direzione. ‹‹Sta per esibirsi Phillip!››
Immediatamente il locale si riempì di un coro ritmico. ‹‹Phillip! Phillip! Phillip!››
Willy avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva neanche lui cosa. E poi le urla eccitate avrebbero sovrastato la sua voce, pensò mentre il bancone si svuotava immediatamente della popolazione femminile che prese subito posto intorno al palco, continuando a ridere e a urlare sconcezze.
Note martellanti e ritmo incalzante si diffusero nell'aria e nello stomaco. Willy osservò con invidia il corpo muscoloso e lucido d'olio del ballerino, sentendosi messo da parte per l'ennesima volta. Se fosse stato un vampiro le ragazze non l'avrebbero trattato così. L'avrebbero trovato interessante. Trasse un sospiro profondo e si diresse verso l'ufficio di Jean-Claude, il vampiro che gestiva il locale per conto di Nikolaos, il master della città.
Percorso lo stretto e impersonale corridoio illuminato da fredde luci al neon arrivò a destinazione, accolto da una voce concitata. La porta era aperta e Willy si sistemò di lato, cercando di farsi invisibile, non dubitando che comunque i vampiri l'avrebbero sentito.
Jean-Claude, moro, pallido e dagli occhi blu, perfettamente rispondente all'ideale del vampiro romantico propagandato da Anne Rice, le lunghe dita ripiegate a sorreggersi il mento, i gomiti appoggiati alla scrivania di lucido legno laccato, era impegnato in una animata discussione con Aubrey, uno dei suoi impiegati. Anche se la definizione impiegato mal si adattava all’uomo biondo dal corpo statuario, reso luccicante da un leggero strato d’olio e appena coperto da un leggero gonnellino di pelle in stile romano. Mentre parlava a voce alta sbatteva ripetutamente un elmo in ottone sulla scrivania, sottolineando con un colpo sordo ogni parola. Jean-Claude lo fissò impassibile, senza tradire la minima emozione: infatti l’animosità era tutta dalla parte di Aubrey.
‹‹Non voglio andare sul palco ridotto in questo modo!›› stava urlando il vampiro. ‹‹Non è dignitoso!››
Jean-Claude sollevò appena un sopracciglio. ‹‹Dignità. Che merce sopravvalutata di questi tempi.››
‹‹Mi rifiuto di ballare conciato così›› sbottò Aubrey accennando con la mano alle strisce di pelle che a malapena nascondevano un tanga dello stesso materiale.
‹‹Puoi sempre parlarne con Nikolaos›› suggerì Jean-Claude in tono noncurante.
Il viso già pallido di Aubrey sbiancò ulteriormente raggiungendo una tonalità cadaverica che ben si accordava al suo status di non morto. ‹‹Forse non è il caso di disturbarla›› balbettò il vampiro.
‹‹Forse›› convenne l'altro riportando la sua attenzione ai documenti che giacevano impilati ordinatamente sulla scrivania.
Aubrey aspettò qualche secondo in silenzio. Era stato dismesso. Girò i tacchi e uscì dalla porta in una mossa fluida che Willy non riuscì a registrare coi suoi occhi umani, mentre la porta sbatteva rumorosamente alle sue spalle. Aubrey venne fermato da una vampira che si stava avvicinando verso di loro, Theresa, la riconobbe Willy mentre la voce di Jean-Claude lo invitava a entrare, morbida e carezzevole come quella di un amante. Willy rabbrividì di piacere pensando con improvviso terrore, sono forse una checca?, poi scrollò le spalle ed entrò. La sua eterosessualità non era neanche in discussione.
Jean-Claude lo invitò con un gesto della bella mano ad avvicinarsi alla scrivania. Poi lo fissò con occhi interrogativi.
Willy restò in silenzio, fissandogli il petto, non risolvendosi a confessare il motivo della sua visita. Il vampiro lo osservò da capo a piedi, meravigliandosi, per l'ennesima volta, che qualcuno potesse avere il coraggio di indossare quegli abiti, poi, vedendo che Willy non parlava, lo incoraggiò.
‹‹Cosa la porta da me Signor Mc Coy? Che io sappia Nikolaos non ha incarichi da assegnare ai suoi molti talenti.››
Willy restò ancora in silenzio, cercando di riprendersi dalle parole di Jean-Claude. Era lui a passargli gli ordini del Master della Città e ogni volta che lo chiamava Signore lo prendeva di sorpresa: nessun altro lo faceva.
‹‹Alors?›› insisté l'altro cominciando a spazientirsi.
‹‹Sono venuto qua per...››
‹‹Oui?››
Willy si grattò la testa, a disagio. ‹‹Accidenti è difficile Capo.››
‹‹Signor Mc Coy, quante volte devo dirle che non sono il suo capo?››
‹‹Sì, scusami Capo.››
Jean-Claude scosse la testa, sospirando e passando a un più amichevole tu. ‹‹Dimmi cosa ti serve e facciamola finita.››
Willy incamerò aria sufficiente per gonfiare almeno dieci palloncini e la espirò tutta in una volta. ‹‹Voglio diventare un vampiro.››
Gli occhi di Jean-Claude si sgranarono al punto da rischiare di fuoriuscire dalle orbite, le labbra gli tremarono impercettibilmente aprendosi quasi in un sorriso prima che la consueta impassibilità tornasse a velargli il bel volto. Era la cosa più vicina a una risata che Willy avesse mai visto sulla sua faccia e il pensiero non era molto confortante.
‹‹Mon Dieu. Credo di non aver sentito bene.››
Willy raccolse tutto il suo coraggio. ‹‹Voglio diventare un vampiro e voglio che tu mi trasformi Capo.››
Jean-Claude scelse di ignorare il Capo per concentrarsi su altro. ‹‹Fammi capire, voglio?››
Willy fece un passo indietro, cominciando a balbettare. ‹‹No, bè, cioè, intendevo dire vorrei...››
‹‹Lo escludo›› rispose perentoriamente Jean-Claude.
‹‹Ma non vuoi sentire neanche il perchè?›› lo pregò Willy.
Il vampiro restò un attimo in silenzio, ricordando gli innumerevoli anni passati alla mercé di master più potenti, le torture, le continue umiliazioni. ‹‹Non c'è un perchè abbastanza valido›› gli disse con voce dura senza neanche guardarlo, sembrando allo stesso tempo umano ed alieno. ‹‹Te lo posso assicurare per esperienza.››
Willy si avvicinò alla scrivania e stavolta le parole gli uscirono di getto, spinte dalla paura del fallimento e dal nervosismo. ‹‹Ma tu non sai cosa vuol dire vivere ignorato da tutti. Come se fossi invisibile.››
Se l'uomo avesse avuto il coraggio di guardare il vampiro negli occhi avrebbe colto tristezza e compassione. ‹‹Non risolverai i tuoi problemi diventando un vampiro Willy.››
‹‹Ma se lo fossi la gente non potrebbe far finta che non esisto! Sarei fico, vivrei in eterno... se mi fossi trasformato a vent'anni non avrei avuto neanche i brufoli! Non è una ficata?›› sbottò accennando alla sua pelle butterata dall'acne.
‹‹Ti posso assicurare che conosco qualcuno che non sarebbe stato d'accordo con te›› replicò Jean-Claude scuotendo la testa. ‹‹La discussione è chiusa.››
‹‹Ma Capo!››
‹‹Ho detto che è chiusa›› ripeté il vampiro rimmergendosi nei suoi documenti. ‹‹E non chiamarmi capo!››
‹‹Ok, Capo›› disse Willy uscendo mestamente dall'ufficio.
La sua vita non sarebbe cambiata, sarebbe stata sempre la solita merda. Non è che aveva dato per scontato il sì di Jean-Claude, però ci aveva sperato. Gli era sembrato un vampiro decente, a suo modo gentile, l'aveva sempre trattato come una persona. Forse si era sbagliato. Forse l'aveva giudicato troppo bene.
‹‹Un penny per i tuoi pensieri Willy›› la voce di Aubrey lo colse di sorpresa facendogli quasi prendere un colpo.
‹‹Calma ometto! Il tuo amico Aubrey è qui per aiutarti›› gli disse il vampiro dandogli una pacca sulla schiena e sospingendolo lungo il corridoio.
‹‹Amico? Da quando siamo amici?›› Aubrey finora l'aveva sempre ignorato.
‹‹Aspetta. Mettiamoci al riparo da orecchie indiscrete›› gli sussurrò l'altro con aria cospiratoria, mentre attraversavano la hall. Lo fece sedere a uno dei tavolini più lontani dal palco, approfittando del breve momento di quiete tra un’esibizione e la successiva.
Erano uno di fronte all'altro e Aubrey avvicinò il capo a quello di Willy, mentre un sorriso che non raggiunse gli occhi gli scopriva le zanne. ‹‹Non ho potuto fare a meno di sentire la richiesta che hai fatto a Jean-Claude.››
‹‹E allora?››
‹‹Volevo solo dirti che hai tutta la mia solidarietà›› continuò Aubrey. ‹‹Quello è proprio uno stronzo.››
‹‹Così pare.››
Aubrey digrignò i denti parlando più a sé stesso che a Willy. ‹‹Il francesino è una cagna assetata di potere e non vuole condividerlo.››
Willy restò in silenzio, in attesa di capire dove volesse andare a parare il suo nuovo amico.
Il sorriso si aprì di nuovo in uno spaventevole luccichio di canini. ‹‹Io invece sono un vampiro generoso, umano.››
La speranza bussò di nuovo alla porta di Willy. ‹‹Vuoi dire che…?››
‹‹Già›› annuì l'altro. ‹‹Ti posso trasformare in uno di noi.››
‹‹Dici sul serio?››
‹‹Stanotte smonto alle tre se vuoi mettermi alla prova.››
Willy non riusciva a credere alle proprie orecchie. ‹‹Vuoi farlo subito?››
‹‹Cominceremo stanotte con il primo morso e domani l'altro sarai un vampiro›› disse Aubrey alzandosi. ‹‹Troviamoci in Saddle street alle tre e un quarto.››
Willy era già perso nel mondo delle sue fantasticherie. ‹‹Sarò un vampiro›› sussurrò tremante. ‹‹La mia vita cambierà.››
‹‹Ci puoi giurare bello! Ci puoi giurare...›› borbottò tra sé e sé il vampiro dirigendosi verso il retro del palcoscenico per prepararsi alla sua esibizione. Dal privè subito dietro il loro tavolo spuntò Theresa che, con aria preoccupata, lo trascinò velocemente dietro le quinte.
‹‹Che cazzo stai combinando Aubrey?›› lo fronteggiò la vampira. Le parole erano permeate da un filo gelido di potere che le rendeva dure e pesanti come piombo.
‹‹Oh Theresa, amica mia›› la prese in giro l'altro. ‹‹Sempre ad origliare.››
‹‹Non sei neanche un master, come pensi di farlo?››
La fronte di Aubrey si corrugò in una smorfia di rabbia che lo rese quasi brutto. ‹‹Non sarò un master ma ho più di cinquecento anni, ce la posso fare.››
Theresa scosse la testa, incredula di fronte alla tracotanza del compagno. ‹‹Jean-Claude gli ha già detto di no. Rischi che lo dica a Nikolaos. Rischi la bara, e per cosa? Per una questione di orgoglio?››
Aubrey ridacchiò. Un suono aspro e sibilante che non aveva nulla di allegro. ‹‹Io lo so perchè gli ha detto di no. Gli ha fatto pena. Sarà divertente vedere la sua faccia quando scoprirà che c'ha pensato qualcun altro.››
Theresa sospirò. ‹‹Stai attento Aubrey. Stai sottovalutando Jean-Claude.››
‹‹Chi, la puttana del Master? Si dà tante arie da imprenditore ma lo sanno tutti qual è il suo vero lavoro: Nikolaos vende il suo bel faccino per ottenere favori.››
‹‹Può darsi, ma perchè la Master si impegna così tanto a limitare la sua vita amorosa? Perchè Jean-Claude si dà tanto da fare per sembrare solo un bel manichino, sempre umile ed inoffensivo? Secondo me nasconde qualcosa, c'è di più di quello che appare al primo sguardo.››
‹‹E' una troia e basta›› ringhiò Aubrey calcandosi l'elmo in testa e drappeggiando il suo gonnellino con una toga rossa. ‹‹E lo sarà sempre. ››
Theresa scosse la testa osservandolo salire sul piccolo palco. Gli uomini erano stupidi e quella semplice verità non sarebbe mai cambiata, vivi o morti che fossero. ‹‹Io ti ho avvertito Aubrey.››


‹‹Sei tu capo?››
Jean-Claude non riuscì a trattenere un sorriso. ‹‹Oui Willy sono io.››
‹‹Mi sento uno schifo›› grugnì l'altro.
‹‹Ci siamo passati tutti, vedrai che presto starai meglio.››
‹‹Sei arrabbiato?›› chiese Willy senza osare rivolgergli lo sguardo.
‹‹Adesso puoi guardarmi, dopotutto sei uno di noi›› gli fece osservare Jean-Claude. ‹‹Comunque non sono arrabbiato con te. Volevo solo risparmiarti una delusione, ti accorgerai ben presto di averla combinata grossa.››
‹‹Magari per me sarà diverso.››
‹‹Lo spero per te. Dico sul serio.››
‹‹E Aubrey?››
Jean-Claude inarcò un sopracciglio. ‹‹Sei preoccupato per tuo padre?››
‹‹Quel figlio di puttana mi ha mollato qui come un sacco di spazzatura. Per me può andare a farsi fottere.››
‹‹Ti consiglio di non dirlo ad alta voce. Mancare di rispetto a un vampiro più alto in grado può farti passare grossi guai.››
Willy diventò se possibile ancora più bianco tanto che l’altro si sentì in dovere di tranquillizzarlo. ‹‹Ma adesso puoi farlo! Aubrey starà qualche giorno nella bara.›› Jean-Claude sorrise nuovamente. ‹‹Qualcuno ha informato Nikolaos della sua iniziativa e lei non ha gradito.››
‹‹Bara?›› ripeté Willy terrorizzato.
‹‹Ti spiegherò tutto con calma, non ti preoccupare. Piuttosto, che nome ti sei scelto?››
L'altro lo guardò senza comprendere. ‹‹Ho già un nome.››
‹‹E' tradizione cambiare nome una volta trasformati›› spiegò Jean-Claude con pazienza.
‹‹Ma io sono Willy Mc Coy!!››
Jean-Claude rise di gusto scrollando le spalle. Forse era vero: forse per questi novellini sarebbe stato diverso.
‹‹E allora andiamo Willy Mc Coy!›› disse togliendosi il mantello e avvolgendoci con dolcezza il vampiro ancora provato dall'esperienza della trasformazione. ‹‹Andiamo al Circo dei Dannati, Andiamo nella tua nuova casa!››
‹‹Allora sarai davvero il mio Capo?››
Jean-Claude osservò l'uomo coperto di vomito che lo guardava con occhi speranzosi, la sua agghiacciante cravatta e quel vestito talmente sintetico che avrebbe potuto illuminare il vicolo a furia di scintille. Trasse un lungo sospirò e se lo caricò su una spalla. ‹‹Sì Willy, ma non lo dire a nessuno.››

martedì 17 marzo 2009

Bellemorte 420 a.c.


“I gazed up at her, and her face was like something carved of alabaster, with lips red and perfect, hair like the darkness of night made into furred silk, falling around her nude perfection like a veil. Her eyes were pale brown, like dark honey. I knew it was Bellemorte, as if I'd always known her face.”

-Narcissus in chains-

Belle si ammirò distrattamente in uno dei grandi specchi del corridoio. Non aveva bisogno di guardarsi per sapere che era semplicemente perfetta eppure non riusciva a fare a meno di ravviarsi ora una ciocca dei lunghi capelli corvini, ora il fichu che le orlava la profonda scollatura.
Si sventagliò le guance leggermente arrossate dal fard riportando la sua attenzione alla vampira che aveva di fronte, Musette. «Hai fatto accendere il caminetto nella stanza delle rose?»
«Sì, mia signora.»
Belle annuì soddisfatta: il suo secondo in comando non brillava per fantasia e intraprendenza fuori dalla camera delle torture, ma era un elemento su cui di solito si poteva contare. «E hai fatto preparare il vino e le olive?»
«E’ tutto pronto» rispose l’altra, chinando la testa in segno di ossequio. «Esattamente come la mia signora ha ordinato.» Bellemorte chiuse con uno scatto secco il ventaglio d’avorio che teneva tra le mani. «E sarà meglio che sia così mia dolce Musette o ne risponderai personalmente.»
Musette guardò Bellemorte scivolare lungo il corridoio con la sua andatura morbida e ancheggiante, mentre una vampira che dimostrava non più di sei anni faceva capolino dal rifugio sicuro delle sue crinoline. «Si può sapere che sta succedendo?» le chiese questa atteggiando le labbra in un broncio fanciullesco che ormai da tempo non le si addiceva più: già due secoli erano passati da quando un vampiro pazzo l’aveva trasformata. «Non ho mai visto Bellemorte così agitata.»
«La nostra signora non è agitata Valentina, è semplicemente attenta ai dettagli.»
«Allora diciamo che non l’ho mai vista così dedita ai particolari Musette.»
La donna corrugò la fronte liscia, mentre una smorfia di disappunto le guastò il bel viso. «E’ l’ospite misterioso mon petit chou.»
«L’ospite misterioso?»
«Non te ne eri mai accorta Valentina?» le fece notare l’altra. «Viene tutti gli anni a dicembre, resta per tre giorni e poi se ne va. E’ sempre incappucciato e ha contatti solo con Belle. Molti ci hanno provato» concluse Musette aggrottando le scure sopracciglia. «Ma nessuno è riuscito a scoprire chi sia.»
«Un amante?» suggerì la piccola.
«No. Ce ne saremmo accorti.»
«E allora chi?»
«Non lo so mon petit chou» sospirò Musette. «E’ un mistero, un vero mistero.»

Bellemorte era seduta sulla poltroncina Luigi XIV davanti al camino acceso, intenta a contemplare il piccolo giardino d’inverno visibile dalla parete a vetri. Dato il periodo, lo abbellivano solo sempreverdi ed ellebori mentre le rose che tanto amava e che davano il nome alla stanza dormivano il sonno del giusto sotto la pacciamatura. La luce fredda della luna e quella calda delle fiamme giocavano a rincorrersi sui nudi rami, trasformando spine e tralci in uno spettrale ricamo.
La vampira afferrò lo stelo di un calice di cristallo dal tavolo da caffè e lo osservò in controluce, rigirandolo tra le dita. Lo portò al viso e ne aspirò a fondo l’aspro aroma resinato prima di sorbirne un piccolo sorso. Chiuse gli occhi, abbandonandosi con un sospiro sullo schienale imbottito. Parigi scomparve. L’elaborata cornice di marmo del camino e i delicati affreschi floreali sparirono lasciando il posto al cielo azzurro di agosto e al calore del sole sulla pelle.
Atene la accolse nuovamente nel suo rude abbraccio, come già aveva fatto più di duemilacinquecento anni prima.
Con quanta cura aveva preparato il suo ingresso in società! Lei, emigrante da Mileto e convinta di trovare la vera civiltà nella culla della democrazia.
La solitudine aveva iniziato a pesarle dopo i primi giorni: era giunta al seguito di Alcibiade il vecchio, figurando come la sorella nubile della moglie del nobile ateniese e le uniche possibilità di svago concessale erano confinate all’ambiente familiare. Uno svago che per lei era alieno.
Non poteva trovarlo nelle donne, rinchiuse nei ginecei, rassegnate e stanche, terrorizzate dai mariti e scialbe nella loro totale ignoranza. Lei che era stata allieva di Gorgia[1] non desiderava certo quelle donnesche confidenze fatte di sospiri e meschinità, di luoghi chiusi e faccende domestiche, di poche parole senza spessore. Doveva uscire da quel vicolo cieco: voleva essere conosciuta e stimata per il suo cervello e non per la sua abilità nel gestire la casa e nel custodire mazzi di chiavi.
Aveva indossato la sua tunica più bella, aveva sciolto i lunghi capelli, aveva truccato gli occhi col carbone ed uscita da quella prigione aveva affrontato il mondo.
Non aveva visto altre donne, a passeggio. Solo uomini. Uomini rumorosi e rissosi, che strappati alle loro conversazioni oziose, si erano girati a guardarla con audacia e sfrontatezza. Quegli sguardi, trasudanti erotismo e voluttà, l’avevano ubriacata, l’avevano spinta a concedere sorrisi, a inseguire confronti e a cercare amicizia.
Non l’aveva trovata.
Non l’aveva trovata in quegli uomini che le avevano offerto sesso e denaro ma non stima.
Scoraggiata, ne aveva affrontato uno, uno qualsiasi e così le era stato risposto. «Mia cara, se vuoi vendere il tuo corpo, aspetta che sia io a cercarlo. Se cerchi uno sposo, usa un lanternino. Nessuno sposerà una meteca, una straniera. Nessuno genererà figli che non potranno partecipare alla vita pubblica. Nessuno né per amore né per denaro accetterà una non cittadina.»
Ma qualcuno l’aveva fatto, qualcuno che l’aveva iniziata alla vita pubblica con la dignità che le competeva.
Qualcuno che non aveva trovato motivazione né nel sesso né nel denaro, ma solo nell’amore della parola e nella sua forza.
La porta si aprì silenziosa e l’aura di potere che si sparse per la stanza riportò Belle nella Parigi del duemila. La vampira si concentrò un breve istante per sincerarsi che le sue istruzioni fossero state eseguite e che lei e il suo ospite fossero completamente soli. Poi sorrise maliziosa all’indirizzo della figura incappucciata che le si era materializzata davanti. Gli occhi d’ambra scintillarono seducenti e la sua voce vellutata danzò inebriante nell’aria.
«Ti saluto, Socrate, mio indisciplinato studente.»
L’uomo si tolse il cappuccio, rivelando la testa canuta e la barba ricciuta del famoso filosofo. «Ti saluto Aspasia, mia amata erotodidaskalos[2]
Socrate lasciò cadere il mantello a terra e si sedette davanti al fuoco accanto al suo anfitrione. Occhieggiò con cupidigia i piatti e i bicchieri posati sul tavolino mentre un sorriso ironico fece lampeggiare le zanne tra i baffi ancora folti. «Crudele Aspasia, anche quest’anno mi fai trovare le olive nere di kalamata.» Il filosofo prese la ciotola che le conteneva e le annusò estasiato. «Anche quest’anno dovrò subire il dolce supplizio di sentirne la fragranza e poter solo immaginare la polpa succosa che si scioglie in bocca.»
Belle rise di gusto, senza alcuna traccia di potere nella voce. «Supplizio amico mio? Io non parlerei di supplizio alla mia corte. Forse la parola giusta è tentazione.»
«E cosa è mai la tentazione?» chiese Socrate con voce scherzosa, posando nuovamente la ciotola.
Belle sbuffò. «Per favore vecchio satiro… non ho bevuto abbastanza retsina per cadere così su due piedi nei tuoi tranelli da quattro soldi. L’ironia socratica lasciala agli stolti.»
«Ma io inseguivo innocentemente il tuo sapere dal basso della mia infinita ignoranza» protestò scherzosamente l’altro.
«Già ho dovuto perdonarti per aver abbandonato lo studio della parola in favore della tua rozza dialettica. Maieutica…» Belle sputò quasi la parola. «Se mia madre avesse fatto un lavoro così rozzo non ne sarei stata tanto orgogliosa.»
Socrate si strinse nelle spalle. «Lei faceva partorire le donne, io le anime.»
«Lo sgravio dell’anima nella maggior parte dei casi è un abominio della natura e decenza vuole che sia abortito prima di nascere.»
«Ma posso io sapere se un’idea è buona o se meriti l’oblio?» ribatté l’altro riempiendosi un calice di retsina. «Io non so nulla, l’unica cosa che so è di non sapere.»
Belle si lasciò andare a un finto sbadiglio, riparandosi la bocca col ventaglio. «Sei ripetitivo amico mio e lasciatelo dire: non sei l’unico a saperlo, anch’io lo so.»
«Che tu non sai?» le disse Socrate strizzandole un occhio.
«Che tu, non sai. Vuoi far partorire un uomo senza accorgerti di quanto ciò sia un’aperta contraddizione in termini: il parto è dolore e nessun uomo vuole soffrire.» Belle scosse la testa. «La tua levatrice è solo un palliativo.»
«Eppure anche tu ne hai avuto bisogno. Non fosse stato per Polissena i figli di Pericle non avrebbero mai visto la luce.»
Il volto di Belle si fece vuoto e immobile come quello di una bambola. «La luce dei miei figli si è spenta da secoli così come quella del mio amato Pericle. Non è cortese da parte di un vecchio amico ricordarmelo.»
«Ti chiedo scusa Aspasia» sospirò l’uomo. «Io ti chiamo col tuo antico nome eppure faccio fatica a ricordare chi eri.»
Belle chiuse gli occhi. «A volte io stessa faccio fatica.»
«Non eri tu a sostenere che l'esercizio dell'arte della parola e della filosofia non sono tra loro incompatibili? Che il Vero e il Bello non sono categorie inconciliabili, ma due aspetti di una stessa elevazione dell'anima il cui nesso è l'eros? Dove è finita quell’Aspasia?»
«Aspasia è morta Socrate» disse la vampira. «Bellemorte è rinata dalle sue ceneri per credere solo nell’hedoné.»
«L’hedoné» ripeté Socrate con disprezzo.
Belle ridacchiò stancamente. «Ah se ti avesse sentito Aristofane[3]! Come avrebbe potuto descriverti come un perdigiorno seduto a mezz’aria su un pensatoio e tutto intento a corrompere la mente dei giovani?»
Socrate fece schioccare la lingua in segno d’apprezzamento. «Effettivamente il mondo avrebbe perso una commedia divertente.»
«Tu disprezzi il piacere fine a sé stesso: l'uomo non è essenzialmente il suo corpo, ma la sua anima. La cosa più importante, ciò che davvero vale è l'anima, che infatti è di livello superiore al corpo e dura oltre il corpo. Non era questa la tua tesi?»
«Sì, era questa.»
«E cos’è l’anima?»
Sul brutto volto dell’uomo si dipinse un sorriso genuino. «Rivolgi contro di me le mie stesse armi?»
«No amico mio» rispose Belle seria. «Non ci sono armi e non c’è vittoria. Semplicemente non abbiamo anima e il corpo è l’unica cosa che ci resta.»
«E’ vero» ammise l’altro abbassando gli occhi. «Ho rinunciato all’anima pur di vivere e continuare la mia ricerca.»
Lo sguardo di Belle si fece lontano, perso nei labirinti del tempo. «Mi ricordo ancora il tuo discorso "O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura?[4]".»
Socrate rimase in silenzio.
«Non trovi paradossale che mentre esortavi l’ateniese a dedicarsi alla propria anima tu perdevi la tua?» continuò Belle.
Socrate trangugiò un ultimo sorso di vino. «L’uomo è debole, Aspasia, e tu sei stata la perfetta tentatrice.»
«Non vestirò i panni dell’Eva di turno mio buon amico» disse Belle alzandosi e cominciando a camminare avanti e indietro di fronte al fuoco. «Anito e Licone contavano probabilmente sul tuo esilio volontario, com'era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora, ma tu non volesti abbandonare la città e ti sottoponesti al processo. Te lo ricordi l’atto di accusa? "Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità . Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani. Si richiede la pena di morte". Punto.»
«Mi ricordo.»
«Dannato testone» si infervorò Belle. «Io ti offrii un’opportunità di salvezza dopo che avevi rifiutato l’aiuto dei tuoi sostenitori! Ma Socrate il retto non poteva ritrattare, non poteva contravvenire alla legge! La legge si può criticare, ma non violare. Con il mio bacio oscuro ti ho salvato la faccia agli occhi dei posteri!»
«Come potevo riconoscere di negare l’esistenza degli dei se credevo nei daimon[5], i "figli delle divinità"? E’ ovvio che credendo nei loro figli creda anche nelle divinità: perchè ci sia il figlio, ci devono anche essere il padre e la madre!»
L’ira di Belle si sciolse come neve al sole. «Nessuno dei tuoi sostenitori ha capito davvero cosa rappresentava per te il daimon.»
«E come potevano? Forse Platone è l’unico ad essercisi avvicinato chiamandolo angelo custode, dono divino per i buoni.»
«E tu saresti il buono?» chiese la vampira inarcando un delicato sopracciglio.
«Non lo so Aspasia, ma tu sei un dono divino. Sei tu il mio daimon.»
«Sono solo un’amica, Socrate» sospirò Belle. «Un’amica che moriva di solitudine.»
«Deve essere stato difficile per te: abbandonare i tuoi figli, Pericle, il tuo posto nella società.»
«I miei figli» si dolse Belle. «Li ho visti invecchiare e spegnersi pian piano senza poter far nulla.» La donna bevve un altro sorso di vino. Fingere la morte e lasciare i suoi cari era stata la prova più dura da superare, anche se ne era valsa la pena. «Ho rivisto Pericle malato di peste e mi ha scambiato per un’allucinazione. Non ho potuto dirgli alcunché.» La vampira restò qualche secondo in silenzio, persa nei suoi pensieri mentre Socrate attendeva, e poi continuò. «Il posto in società è l'unico che non rimpiango. L'ho mai avuto davvero? Ho inseguito un sogno che aveva il sapore di realtà ma che alla fine si è rivelato fragile e inconsistente o le accuse di empietà che mi sono state rivolte non avrebbero mai avuto seguito. Ti ricordi Demostene?»
«“Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per le cure quotidiane, le mogli per darci dei figli legittimi ed essere le custodi fedeli delle nostre case”» declamò Socrate con voce stentorea. «Nessuno si aspettava che Pericle, primo cittadino e quindi teorico esempio di virtù private, potesse ripudiare un’ateniese per sostituirla con una straniera.»
«Già» commentò amaramente Belle. «Nessuno trovava scorretto che Pericle amasse i fanciulli, né che maltrattasse la prima moglie, ma ci si scandalizzava che considerasse una meteca un essere umano, che vivesse con lei invece di relegarla nel gineceo, che invitasse a casa sua gli amici con le loro mogli. La goccia che fece traboccare il vaso furono quegli idioti di Ermippo e di Aristofane[6] che mi accusarono di essere la consigliera e l'ispiratrice della politica imperialista periclea.»
«Uomini stolti che credevano di servire il bene facendo il male» commentò Socrate.
«Dovevo tornare nella mia Mileto, dove uomini e donne discorrevano tra loro e dove non c’era questa scellerata dicotomia, per cui la donna era sciocca, o puttana.» Improvvisamente la vampira proruppe in una gran risata. «Non è fantastico? Mi hanno accusato di essere un’etera, una corruttrice dei buoni costumi della polis e delle giovani ateniesi e non lo ero[7].» La risata pian piano si spense lasciandole un guizzo birichino negli occhi d’ambra.
«Se mi vedessero adesso… la regina delle puttane, con un potere che mai nessuno di loro si sarebbe neanche sognato. Ho avuto in pugno re e imperatori e ho governato dal mio letto l’Europa intera!»
«Cosa ti convinse amica mia?» le chiese il filosofo. «Le accuse che mi hai rivolto poc’anzi le rivolgo adesso a te. Ti avremmo salvato Aspasia, la polis si sarebbe accontentata di un esilio. Fu per orgoglio?»
La vampira scosse la testa. «Io, Bellemorte, la tentazione personificata, a mia volta cedetti alle lusinghe di un sogno che non scivolasse via come sabbia tra le dita.»
«Chi è stato Aspasia? Chi fu a tentarti?»
«Me lo chiedi ogni anno.»
«E tu ogni anno eviti di rispondere.»
Belle si alzò, lisciandosi i drappi di pizzo che le ornavano l’ampia gonna. «E anche questa volta andrà come deve andare. Vai Socrate! Alphonse ti aspetta nella tua stanza: è un mannaro sedicenne che ho addestrato personalmente» la vampira ridacchiò maliziosa. «Pensando a te e al tuo disprezzo per l’hedonè…»
Socrate ebbe il buon gusto di arrossire. «Le passioni e il piacere non collimano sempre con la razionalità: non sono negativi in sé, ma devono essere dentro l’armonia e la misura dettate dalla ragione.»
«Non pensare alla ragione amico mio. Vai e divertiti» lo esortò Belle abbracciandolo. «Domani sera continueremo il nostro comune cammino verso la verità.»
Socrate si era già ritirato da più di un’ora quando la vampira uscì dalla stanza e percorse lentamente uno dei lunghi corridoi della sua residenza, fermandosi ora su una soglia ora sull’altra, sedotta dai gemiti che ne prorompevano. Ammirò il contorcersi dei corpi pallidi nelle alcove, assimilando con voluttà l’energia e la sensualità che ne emanava. Si leccò le labbra con soddisfazione: questi erano i suoi figli, il suo mondo, il suo insegnamento. Una scuola dura forse, ma necessaria alla loro sopravvivenza. Nessuna ribellione era tollerabile, nessuna pietà, nessuna esitazione. Solo il rimorso era concesso, un piacere da concedersi raramente e in privato. Socrate l’aveva chiamata il suo daimon, il suo angelo custode. Il filosofo invece era la sua coscienza, il momento dei rimpianti e dei ricordi.
La vampira giunse in fondo al corridoio, aprì una porta sulla destra e dopo aver sceso due rampe di scale e una piccola anticamera si trovò in una stanza buia e circolare.
La tentazione, pensava Belle, la tentazione era venuta a cercarla nei panni di una dea, aveva creduto allora. Ancora non era stata incarcerata, ancora il giudizio finale non era stato pronunciato, ancora era una donna libera. Libera di scegliere. In quei lunghi momenti di attesa aveva vagliato la sua vita, pesandola con la sua implacabile bilancia e trovandola manchevole. Non era cambiato nulla da quando aveva varcato per la prima volta la soglia di Atene: le sue conquiste erano state solo un’illusione.
La donna percorse il perimetro della stanza accarezzando le alte finestre che davano sul niente. Sì, sul niente, sul buio. Un buio così completo e totale da poterlo quasi toccare con mano. Lo stesso buio che l’aveva avvolta nella sua casa ateniese quella notte di duemila e cinquecento anni prima, che l’aveva penetrata in ogni poro, l’aveva soffocata, l’aveva lasciata a terra tremante. Riuscendo a malapena ad alzare la testa aveva visto l’oscurità prendere forma e sostanza e farsi donna.
«Ecate[8]» aveva sussurrato Aspasia. «O signora dell’inferno, delle evocazioni, degli incantesimi e dei fantasmi! O Dea! Mai ti ho mancato di rispetto, mai ho mancato i sacrifici. In cosa ha fallito questa tua figlia?»
«Dea» rispose la donna. «Mi piace. »
«Non sei una Dea?»
«Sono quello che vuoi piccola Aspasia. Sono quello che la tua mente umana è in grado di capire e di affrontare.» Aspasia rabbrividì sotto il tocco della sua voce, eterea e impalpabile come filo di ragno.
«Vuoi che sia una Dea? Vuoi che sia la Grande Madre? Vuoi che sia Ecate? Nyx[9], la notte? Vuoi che sia uomo, vuoi che sia donna? Io sono tutto questo e anche di più. Io sono la Madre di tutte le Tenebre, sono quello che desideri di più al mondo.»
«Come puoi sapere quello che desidero?»
«Non mi hai definito una dea? Non è prerogativa degli dei sapere cosa alberga nei vostri piccoli e inutili cuori?» disse la tenebra sfiorando i capelli della donna.
«In questi ultimi anni ho seguito da vicino i tuoi passi Aspasia. Attraverso i miei figli ho partecipato ai tuoi convivi, ho ascoltato le tue argomentazioni, ho ammirato la tua bellezza.»
«I tuoi figli?»
«Se avrai il privilegio di incontrarli li riconoscerai immediatamente.»
Belle proruppe in una risatina isterica ripensando al momento in cui Mr. Oliver le era stato presentato. Anche l’oscurità aveva il senso dell’umorismo.
«Cosa vuoi?»
«Voglio te Aspasia. Voglio creare una stirpe che ammali gli umani con la sua bellezza e la sua arguzia. Voglio che al timore si affianchi la reverenza, al terrore la grazia, alla morte la bellezza. Voglio sedurre il mondo intero piccola sofista. E chi meglio di te può incarnare tutto questo? Tu sarai la mia Bella Morte.»
Un empito di orgoglio le colmò il cuore e da quel momento, lo capì subito, fu perduta. «Cosa mi offri?»
«Ti offro la vita eterna Aspasia, ti offro il potere supremo, ti offro me stessa.»
«A cosa dovrò rinunciare?» chiese la donna in un soffio.
«E’ importante»? sussurrò il buio scostando i lunghi capelli dal collo di Aspasia e accostando le labbra alla pelle liscia.
Aspasia chiuse gli occhi e sorrise. «No. »
La vampira si affacciò a una di quelle finestre respirando il buio. Lentamente dal nulla comparve la volta di una caverna enorme, poi un letto. Un letto in cui una forma coperta da lenzuola si agitava senza requie.
«Dormi mammina, dormi» sussurrò Belle. «La tua bimba ti veglia con amore.» Duemilacinquecento anni prima L’oscurità le aveva offerto sé stessa. Era venuto il momento di accettare l’offerta. Con gli interessi.


[1] Il più famoso sofista dell’epoca
[2] Maestra d’amore
[3] Compositore della commedia “Le Nuvole” in cui ridicolizza la figura di Socrate
[4] Platone, Apologia di Socrate
[5] Uno dei capisaldi della filosofia socratica

[6] Esponenti della corrente dei Comici
[7] Alcuni riportano di un processo per empietà subito da Aspasia non suffragato però da documenti storici. Io ho utilizzato questa ipotesi.
[8] Dea infernale dell’Asia minore
[9] Dea della notte contrapposta al giorno

mercoledì 11 marzo 2009

Incipit



Ho scritto una serie di racconti dedicati ad alcuni personaggi della saga di "Anita Blake: a vampire hunter novel". Ho voluto immaginare quale fosse stato il modo in cui tali personaggi erano diventati vampiri e quando. Mi piacerebbe sapere l'opinione di eventuali lettori e se l'avevano pensato in modo diverso. La serie si chiama Incipit e il primo personaggio a cui è dedicato è Asher.

Asher 1419

“He took the cigarette from his mouth and raised his face skyward. The street light played along his face and golden hair. He blew three perfect rings and laughed”
-Burnt Offerings-

La donna era sdraiata sul letto, vestita solo di una lunga gamurra[1] di seta blu in gran parte sbottonata. Il seno florido faceva capolino dalla scollatura quadrata e il colore, per contrasto, rendeva ancora più bianca la sua pelle. I lunghissimi capelli neri le ammantavano il dorso in morbide onde, ricadendo in parte sui fogli di pelle di pecora che stava leggendo. Ogni tanto prorompeva in basse risate di gola che accarezzavano con la loro dolce eco le orecchie della sua compagna in ascolto, seduta su una sedia di legno scolpito, accanto al letto padronale. «Senti questa Musette!
Mia dolce amata, mia bianca luna, mio tutto. Ancora ricordo come fosse ieri il vostro viso eburneo risplendente di luce fare la sua comparsa nella sala del vostro castello. Eravate al braccio di quel piccolo uomo, talmente insignificante al vostro cospetto che non ne ricordo neanche il nome.
Oh Mio Dio Musette! Hai sentito come parla di Augustine? Non è adorabile?»
L'altra inarcò le spesse sopracciglia nere che contrastavano arditamente coi capelli biondi come il grano. «E' di bell'aspetto mia signora ed ha un bell'eloquio. Ma sarà altrettanto potente?»
«Che noia Musette!» Sbottò l'altra. «Potere, potere...io ne ho per dieci, per cento, per mille! Preferisco parlare di un viso d'angelo, di occhi di ghiaccio trasparente, di un corpo che Fidia sarebbe stato onorato di scolpire! E poi Augustine ultimamente è così noioso. Non fa altro che parlare di amore, sembra quasi che io sia un suo possedimento.»
«Questo è impossibile mia signora» esclamò Musette alzandosi in piedi. «Casomai è il contrario!»
«Ti ringrazio mia seconda in comando, non so come farei senza le tue ovvietà. Portami quelle rose sul tavolo e ascolta cosa mi scrive il nostro Ernest.
Solo voi, per me, solo voi. Mai soavità fu più ardente della vostra, mai passione più bruciante, mai le notti senza il vostro dolce tormento più angosciose. Ogni istante che mi separa dalle vostre mani sapienti, dalla vostra bocca fresca, dal vostro miele caldo è tempo sprecato, è vita rubata è orrore e abominio
La donna immerse il viso nel bouquet di rose fragranti che l'altra le aveva porto e ne aspirò il profumo deliziata.
«Vorrei che fosse già domani, vorrei far già parte della vostra fortunata progenie. L'ultimo morso, l'ultimo assaggio di divino prima della suprema estasi. Sarete per me Madre e Amante. Nascita e Morte. Siete già la mia Dea. Come è possibile che i vampiri siano i figli del diavolo se sono i vostri figli?
Questa è proprio divertente. Dice che sono la sua dea.»
«Ma voi siete una dea! Siete Bellemorte, la dea della bellezza e dell'amore, Afrodit-»
«Fammi continuare Musette. Te ne prego.» Sbuffò con impazienza la donna riprendendo a leggere.
«Siete l'immagine stessa della grazia, vagheggiata dagli angeli ultraterreni, colma di tutti doni che la natura può offrire. Aspra e superba come avreste ogni diritto di essere, vana di una bellezza troppo grande per poterla esprimere a parole. Eppure mi avete fatto l'onore di posare il vostro sublime sguardo sulla mia umile persona. Come potrò ripagarvi se non donandovi me stesso per l'eternità?
Attendo con impazienza il nostro incontro, Vostro Ernest di Lancaster, Duca di Lancashire, Conte di Roissy.
L'hai sentito? Vuole donarsi per l'eternità. Che tenero, mi fa quasi pena. Come se avesse una scelta.»
Musette sgranò gli occhi azzurro cielo, cercando di sfiorare con la mano i piedi perfetti dell'altra, le labbra tremanti. «L'ardeur, il vostro immenso potere, l'ha già irretito»
Belle allontanò il piedino dalle dita dell'altra, infastidita, mentre la sua voce da contralto si abbassò minacciosamente di un ottava. «Vuoi forse dire che senza la mia malia di Succubus non sarei stata in grado di farne ciò che volevo?» «No, mia signora. Nessuno può fare a meno di amarvi, di desiderarvi. Siete l'immagine stessa dell'amore.» Balbettò Musette.
Bellemorte chiuse il discorso con un cenno della mano, come a scacciare una mosca immaginaria. «Fammi preparare un bagno al latte. Che sia colmo di petali di rosa, scarlatti e rosa pallido mi raccomando. E dì alla fantesca che voglio la gamurra di seta bianca, quella quasi trasparente, insieme alla giornea[2] di broccato rosso sangue.»
«Sì mia signora.»
La donna si alzò in piedi, piroettando su stessa, sul volto un adorabile broncio. «Oh come vorrei che la moda di quest'epoca fosse più rivelatrice. Sono stufa di nascondere il mio corpo in questi sacchi di seta senza forma.»
«Vostra signoria sarebbe splendida con qualunque abito.»
«Non c'è dubbio alcuno mia cara Musette.» Disse la donna rimirandosi nello specchio, una costosissima lastra d'argento pefettamente lucidato arrivata da Venezia. «Sono Bellemorte.» Si ravviò una lunga ciocca dietro l'orecchio perlaceo e sorrise alla sua immagine riflessa, scoprendo le piccole zanne, ancora più candide sulla bocca rossa. «Sono Bellemorte e sono uno splendore.»


L'uomo era di spalle di fronte al catino di legno pieno d'acqua ormai fredda. Indossava solo l'interula[3] di leggerissimo lino che gli aderiva al corpo bagnato come una seconda pelle. Avrebbe dovuto essere ridicolo ma la sua presenza fisica riempiva la piccola stanza. Si stava massaggiando la mascella sbarbata di fresco con una mano, osservando dubbioso i due indumenti che il valletto reggeva con cautela per i baveri. «Cosa mi consigli Barthelemy? Il farsetto blu oltremare o quello senape?»
«Io vi suggerisco il senape, vi conferisce un aspetto molto distinto.» Rispose il valletto balbettando leggermente, timoroso di indisporre il suo signore.
E infatti un lampo di irritazione gli balenò negli occhi chiarissimi. «Distinto? Di fronte a Bellemorte non voglio apparire distinto. Indosserò quello blu con le calzabrache oro.» Disse accarezzando le pieghe piatte dell'indumento in velluto ricamato. «Mi è appena arrivato da Firenze. La mia amata apprezzerà senza dubbio.»
«Senza dubbio signore.» Si affrettò a confermare il povero Barthelemy appoggiando su una sedia il farsetto scartato.
Ernest non era mai stato così nervoso in tutta la sua vita. Non era da lui essere indeciso sulla scelta di un abito come una giovane vergine in cerca di marito. Le donne, e non solo, gli erano cadute ai piedi da sempre, pensò con un sorrisetto che gli increspò appena le labbra piene. Era bello, nobile e moderatamente ricco. Perchè con Bellemorte doveva essere diverso? Cos'aveva più delle altre?
Tutto, pensò Ernest, tutto. Occhi sfolgoranti come topazi, capelli corvini e profumati, caldi e morbidi come una coperta vivente nelle lunghe notti fredde di Parigi, pelle come seta candida senza bisogno di biacca, labbra così rosse e polpose da sembrare una melograna appena spaccata, e come sapeva usare quella bocca. E quelle piccole mani delicate. Non aveva mai conosciuto una donna così. Mai.
Il sangue circolò più in fretta nelle vene, il cuore accellerò il suo battito, il pene cominciò a inturgidirsi. Si voltò verso la finestra che dava sul giardino, appoggiando la guancia al vetro freddo per trarne sollievo e per salvaguardare la sua modestia agli occhi del servo.
Un servo era meno di niente eppure Ernest si sentiva punto nel vivo: Bellemorte poteva accendergli i sensi col mero ricordo della sua pelle candida, del suo alito caldo. Era impensabile che una donna di chissà quali natali, per quanto bella, potesse avere quell'effetto su di lui, della nobile casata dei Lancaster.
Già, i Lancaster. Finalmente, dopo l'alleanza franco-borgognona, Parigi era in mano agli inglesi e lui poteva rivendicare quelle origini che aveva sempre nascosto in favore della sua nascita su suolo francese. Non più solo conte di Roissy, ma duca di Lancashire, cinquantacinquesimo in ordine per la successione al trono di Inghilterra, ramo decaduto della prestigiosissima famiglia dei plantageneti, insieme a quei bastardi degli York. Finalmente poteva sfoggiare senza paura, appuntato al rigido collo del farsetto, il profumato simbolo della sua schiatta: una rosa rossa.
Belle l'avrebbe apprezzata. Adorava le rose e adorava riceverne: Ernest prese mentalmente nota di farne cogliere un mazzo per fargliene dono la sera stessa. Quelle dal profumo così intenso da stordire, quelle scarlatte, rosse come il sangue che lei aveva leccato dal suo torace senza mai abbandonare il suo sguardo eccitato. Un vampiro, Belle era un vampiro. Demone, strega, progenie del diavolo. E lui stava per cedergli corpo ed anima, volontariamente. Era stato troppo precipitoso? Doveva denunciarla all'autorità ecclesiastica? Doveva inginocchiarsi nella piccola cappella di famiglia e parlarne con Padre Berengario? Solo il pensiero gli strappò una fragorosa risata, che Barthelemy si sforzò dignitosamente di ignorare. Cosa doveva saperne del desiderio quell'uomo precocemente avvizzito? Dei piaceri della carne? Dell'amore?
Amore, sì. Era pazzo d'amore, pazzo di desiderio, pazzo di Belle. Voleva abbandonarsi tra le sue braccia, posare la guancia sul suo seno, respirare il suo profumo di rosa damascena, essere suo. Per l'eternità.
Ancora poche ore. Ancora poche ore e sarebbe successo. Belle gli avrebbe dato il terzo morso, l'avrebbe reso come lei. Invincibile, immortale, un vampiro. Insieme avrebbero regnato sull’Europa intera. Insieme certo. Perchè anche Belle lo amava. Tutti lo amavano. Doveva amarlo anche lei.
Il sole stava per scomparire nel piccolo bosco dietro al giardino, tingendo di rosso e di porpora il verziere[4] e la pergola. Ernest abbandonò la finestra e si sedette sul letto, inclinando la testa all'indietro e lasciando che i capelli biondi e sciolti gli sfiorassero quasi la schiena. «Pettinami e aiutami a vestirmi Barthelemy, sono in ritardo.»
Mentre il valletto gli districava con cautela i capelli, Ernest chiuse gli occhi e si rilassò. L'eternità poteva attendere ancora qualche minuto.


La donna gli stava conficcando le unghie appuntite nel capezzolo sinistro lasciandovi piccole mezzelune sanguigne. «Oh mio Dio Belle che fate? Che tortura è mai questa?»
«Tortura? Mio piccolo Ernest, qualche anno nella mia corte darà un significato tutto nuovo alla parola tortura.» Rise morbidamente Belle leccandogli il collo. Le sue piccole mani gli stringevano i polsi come morse d'acciaio, bloccandolo al letto. «Questo è amore mio caro, solo amore. Un pizzico di dolore accende i sensi e intensifica il piacere. Non trovi?»
«Sì.» Sospirò lui
«Mi piace il tuo corpo, è così liscio» continuò lei abbassando il capo sul suo torace glabro.
«Avevo notato che non ami i peli.»
«Sono nata in un periodo in cui uomini e donne erano avvezzi alla depilazione» gli spiegò Belle. «Adesso li tollero ma il volto lo preferisco perlopiù sbarbato e il torace deve essere liscio» la donna esplose in una risatina maliziosa. «E' più piacevole da baciare.»
«Lasciatemi i polsi Belle, ve ne prego. Desidero toccarvi più di ogni altra cosa al mondo.»
«No mio caro. Stasera sei alla mia mercè, sei il mio schiavo d'amore e farò di te tutto quel che mi aggrada. Ho bisogno che non ti muova.» Disse mentre gli assicurava i polsi alla testiera del letto con strisce di pelle. «Non aver paura, non ti farò alcun male.» gli disse per tranquillizzarlo, ma poi un lampo birichino gli illuminò gli occhi color d'ambra. «Per oggi.»
Ernest non poté fare a meno di guardarla mentre leccava con dovizia il capezzolo prima torturato e gli faceva ondeggiare i capelli di seta sul corpo in una lunga e insostenibile carezza.
«Non è eccitante sentirsi inermi?» gli alitò sul petto. «Sapere che potrei smembrarti a mani nude? Andarmene e lasciarti nelle mani di Augustine, il piccoletto di cui non ricordavi il nome? O forse potrei chiamarlo e farlo assistere...»
«Mi fareste questo?» Sussurrò Ernest sgranando gli occhi.
«No amore mio. No» rispose lei sfiorandogli le braccia con la punta delle dita. «Stanotte Bellemorte è dolce, stanotte Bellemorte è tutta per te.»
«Solo stanotte?»
«Non sfidare la fortuna piccolo. Nessuno può possedere Bellemorte. Ricordalo sempre e vedrai che andremo d'accordo.»
«Ma io credevo...»
«Shhh. Piccolo mio. Shhhh. Quello che credevi non ha più nessuna importanza. Io da oggi sarò la tua Regina, il tuo Verbo. Nella tua missiva mi scrivevi Sarete per me Madre e Amante. Nascita e Morte. Siete già la mia Dea. Non sono parole vuote piccolo. E' la pura e semplice verità. La mia corte è il regno dell'amore. Avrai altri amanti, uomini e donne. Chiunque ti piaccia o mi piaccia che tu seduca per me. Ma Bellemorte sarà sempre la prima. Bellemorte arriva prima di tutto.»
Ernest chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi sulle deliziose sensazioni che provenivano dal suo corpo. In che razza di pasticcio si era andato a ficcare? Eppure le parole dure della donna non riuscivano a scalfire quella coltre spessa di desiderio da cui si sentiva quasi sopraffatto. Nella sua mente c'era spazio solo per Belle, solo per lei. «Non riesco neanche a pensare di poter amare qualcun'altro come amo voi.»
«E come potresti piccolo mio? Come potresti?» rise lei. «Lascia che finisca quello che abbiamo iniziato. Lascia che ti faccia davvero mio.»
«Sì, mia amata, mille volte sì.»
Belle seguì con la lingua la striscia di peli bronzei che dall'ombelico arrivava fino all'inguine badando bene a non toccare il pene di Ernest che sussultava leggermente nell'attesa. «Così liscio, così saldo. Non è passata neanche mezz'ora e siete di nuovo pronto.»
«Siete voi a farmi quest'effetto Belle.»
La donna si riabbassò sul suo inguine gratificandolo stavolta con piccoli colpetti di lingua avanti e indietro, avanti e indietro, come un gattino che lecchi la panna.
«Siete delizioso, Ernest, davvero delizioso.»
L'uomo inarcò la schiena mentre i legami ai polsi gli tiravano la pelle. «Mi sento bruciare, ardere dentro, è una sensazione...è magia? Cos'è questo prodigio?»
«E' l'ardeur piccolo, è il mio potere. Potrei consumarti come una candela, come un ciocco di legno in una sera d'inverno. Tutti i miei figli ereditano parte di questa magia anche se fin'ora nessuno l'ha sviluppata in pieno. Sono proprio curiosa di vedere cosa saprai fare tu.»
«Tutto quello che vorrete Milady, tutto quello che vorrete.»
Belle non rispose e gli prese il pene in bocca, avvolgendolo a più riprese con la sua lingua talentuosa e succhiandolo con ritmo deciso.
Ernest urlò, a un passo dall'orgasmo.
«Non ancora, piccolo, non ancora.» Sussurrò Belle stringendogli la base del pene con la mano sinistra e giocando coi suoi testicoli con l'altra mano. Fece scorrere lentamente le zanne sul suo sesso, stillandone qualche goccia di sangue per leccarla subito dopo con un veloce colpo di lingua. Dopodiché alzò la testa, ancora inginocchiata tra le gambe aperte di Ernest e lo fissò con occhi di miele, sorridendo.
«Belle» la pregò l'uomo tremando incontrollabilmente. «Ti supplico Belle.»
«Mi piace sentirti supplicare Ernest. Mi piace molto.» Mormorò Belle riabbassando la testa e posandola sulla coscia dell'uomo, accanto al suo inguine. La mano tornò a stringergli il pene mentre le zanne gli accarezzarono la pelle delicata vicino alla femorale. «Dimmi cosa sei rispetto a me, dimmi cosa sei.» Lo incalzò Belle continuando a masturbarlo con la sua mano sapiente.
«Non sono niente!» Gridò lui. «Non sono niente!»
«Cosa sei?» insisté Belle.
«I'm nothing but ash in front of you, nothing but ash!»
«Ash. Cenere. Mi piace piccolo» alitò sulla sua coscia. «Dopo stanotte il tuo nome sarà Asher.» Belle colpì di scatto, affondando le zanne nel suo inguine e bevendone il dolce nettare in lunghi sorsi.
Asher sbarrò gli occhi. Fu come se una tonnellata di lava gli fosse colata sul sesso per lambirgli la schiena e arrivargli dritta al cervello. Venne urlando in lunghi getti tra le dita di Belle mentre lei continuava a succhiare il suo sangue. Asher continuava a venire ad ogni sorso, le sue urla ogni secondo più flebili.
«La petite morte sarà la vera morte per te, piccolo mio. Esiste un modo migliore per andarsene?»
«No» rispose Asher socchiudendo piano le palpebre fattesi pesanti come piombo. «Non può esserci niente di più bello.»

[1] Casacca medievale lunga fino ai piedi e abbottonata davanti
[2] Sopravveste senza maniche da indossare sopra la gamurra
[3] Camicia intima che si indossava sotto gli abiti

[4] Grande prato circondato da fossati e pieno di alberi da frutto