sabato 28 marzo 2009

Jean-Claude 1437



“His voice was silken whispers in the small hours of night. Damn, he was good.”

-Guilty Pleasures-

Maman. Claudette. E' questa la morte? E' questa nebbia che mi avvolge i sensi? E' questo abbraccio freddo come la terra a dicembre?
«Ancora un poco mio caro e sarà tutto finito.» La voce dolce di Lisette gli arrivò soffocata dalla coltre inoppugnabile della propria stanchezza. Come poteva finire? Non era così che doveva iniziare?
Maman. Claudette. Che cosa ho fatto?

«Monsieur, vada a casa. Ha bevuto abbastanza per stasera. Se desidera le faccio chiamare un cocchio.» Jean Berthier fissò stolidamente il rozzo viso dell'oste, pallido e informe come pasta da pane lievitata. Un ricordo improvviso lo colpì: il sabato mattina, la stanza piena di luce, maman che impastava il pane e che lo portava a cuocere nel forno dei loro signori, i Vertdulac. Era ancora a casa allora. Aveva ancora una casa. E Maman. E Claudette.
«Mi lasci in pace buon uomo e mi porti una coppa di acqua ardente, ho da pagare se è questo che la preoccupa» disse con freddezza, facendo tintinnare il contenuto di una borsa di pelle. L'oste si ritirò in silenzio scrollando le spalle. Tornò qualche minuto più tardi e posò una coppa di stagno sul tavolo di legno. Se quel damerino con l'accento di Arles voleva stordirsi e farsi rubare i denari erano affari suoi. A Aix en Provence avrebbe trovato pane per i suoi denti, pensò l'oste tornandosene dietro al bancone.
Jean fissò la superficie ambrata del liquore come se potesse leggerci il futuro. Futuro? Lui non ne aveva. Era sparito con la morte di suo figlio e di sua moglie. Era sparito per sempre. Basta Jean, si disse tracannando l'acqua ardente in un solo sorso. Il liquido gli bruciò la gola lasciandogli una piacevole sensazione di calore che dallo stomaco si diffuse alle ossa. Basta Jean. Ce la farai anche questa volta, come hai sempre fatto. Contadino a mezzadria, fanciullo da castigo, donnaiolo impenitente, arrivista senza scrupoli, conte di un casato di campagna ed ora di nuovo signor nessuno. Da quando la moglie e il figlio erano morti poco dopo il parto, il vecchio suocero l'aveva fatto cacciare.
Aveva sposato e messo incinta Gabrielle solo per i soldi e il titolo, lo sapevano tutti, ma se il figlio fosse vissuto, chissà...forse avrebbero avuto una possibilità, forse sarebbero stati felici. Troppo tardi. Come tutto nella sua vita. Sempre troppo tardi.
«Non essere triste bel giovane. Blanche può scaldarti il letto e il cuore.» Jean alzò lo sguardo incontrando gli occhi acquosi di una prostituta male in arnese: denti guasti e seno sfiorito, il suo viso precocemente invecchiato urlava “scolo” ad alta voce. Jean si alzò in piedi, leggermente malfermo sulle gambe e gli lanciò un denaro «Pago per non essere disturbato Madame.»
«Come preferisci bello!» Rispose la donna afferrando al volo la moneta. Di quei tempi non c'era spazio per l'orgoglio ferito, solo per la fame e la miseria.
Bello. L'aveva chiamato bello. Jean colse il suo indistinto riflesso nel vassoio di peltro appeso alla parete. Gli avevano sempre detto che era bello.
«Ti ho scelto perchè hai un bel viso» gli aveva confessato Madame de Vertdulac. «Sposami! Sei così bello!» Gli aveva sussurrato Gabrielle. «Bello, bello!» Gli avevano detto innumerevoli bocche, corpi caldi senza volto alcuno. E Claudette? Maman diceva che erano come due gocce d'acqua a parte gli occhi: neri come il giaietto quelli di Claudette, di un profondissimo blu i suoi. Non si era mai visto, non conosceva il suo viso. Ma se assomigliava a Claudette doveva essere bello. Lei era la più bella del mondo.

La vita lo abbandonava in lunghi sorsi mentre il torpore regnava sovrano sui suoi sensi. Avvertiva a malapena mani lisce come seta sostenerlo saldamente. Labbra avide di sangue sul suo collo. Maman. Claudette. Vi potrò vedere ancora?

Uscì barcollando nel vicolo buio dirigendosi verso il suo baio. Forse una cavalcata gli avrebbe fatto bene, forse avrebbe dissipato il languore provocato dall'alcol. Un tintinnio improvviso gli fece voltare il capo.
Una moneta rotolò ai suoi piedi e si fermò. Jean si guardò in giro, non vide nessuno e si chinò per raccoglierla. Due piedi aggraziati calzati da pianelle di seta, così incongrue in quella fredda serata, apparvero accanto alla moneta come per magia. Jean alzò lo sguardo lentamente: un lungo mantello di lana nera foderato di pelo di scoiattolo, un décolleté generoso che palpitava traslucido alla luce della luna, uno dei più bei visi che avesse mai visto, seppur seminascosto dal cappuccio. Bella e ricca. E stupida per esser sola a quell'ora di notte e in quei luoghi. Jean non potè trattenersi dal sorridere. Aveva denti forti e regolari e alla soglia dei trentanni li aveva ancora tutti. Il suo sorriso non mancava mai di colpire. Pregò che colpisse anche stavolta. Si vide dormire tra lenzuola odorose di essenze pregiate allacciato ad un corpo caldo e profumato, mentre la piccola e dignitosa locanda che lo aspettava perdeva ogni attrattiva al confronto.
«Si è persa Madame? Ha bisogno d'aiuto?» Lo disse cercando di fare con la voce quello che l'educazione e la decenza gli impedivano.
La donna alzò una mano pallida e gli accarezzò la guancia seguendo il profilo dello zigomo e indugiando sulla mascella finemente cesellata. «La tua bellezza mi ha chiamato» gli disse lei con una piacevole voce da contralto che gli sciolse le ossa. «Dovresti essere uno di noi.»
Jean non capì,ma il suo sorriso si allargò ulteriormente mentre si inchinava sfiorandole leggermente le nocche dell'altra mano con le labbra.
«Sono al suo servizio Madame.» Rialzandosi dall'inchino incontrò lo sguardo della donna e rabbrividì: le orbite rilucevano come illuminate dall'interno, le iridi erano di un solido verde, senza pupilla, un alito gelido gli sfiorò la schiena, facendogli alzare i peli sottili delle braccia.
La bocca improvvisamente arida, il sorriso appannato, Jean sentì il cuore saltargli in gola mentre dalle labbra gli scappava un tremante «Chi sei?»
«Lisette» gli rispose lei continuando a fissarlo «Puoi chiamarmi Lisette.» E poi, semplicemente, la sua mente fu altrove.

Perchè ho accettato Maman? Perchè non ti ho dato retta? Perchè non sono tornato a casa ad occuparmi di voi? Mi amerete ancora? Sarò per voi quello di sempre? Diventerò un mostro?
Si risvegliò in una stanza riscaldata dal fuoco scoppiettante di un camino, in un letto morbido, nudo e avvolto da lenzuola fresche di bucato proprio come la sua fantasia gli aveva suggerito. Solo che non si rammentava assolutamente come fosse finito lì, ché fosse stato così ubriaco? L'ultimo ricordo che aveva era l'immagine di un viso bianco nell'oscurità e un nome. Lisette. Poi il nulla.

Jean osservò la stanza lussuosamente arredata accorgendosi che era priva di finestre. Si sentiva stanco, come non si era mai sentito, stanco come se delle catene invisibili gli appesantissero i polsi e le caviglie. Un presentimento, una sensazione che non riuscì a decifrare gli strinse le viscere in un nodo di paura.
«Vedo che ti sei svegliato»
Jean sobbalzò. Avrebbe giurato di essere solo fino a un momento fa. Come aveva fatto il viso dei suoi ricordi a comparire dal nulla in poco meno di un secondo e senza fare alcun rumore? La paura fu subito sostituita dal desiderio quando si concesse il lusso di ammirare la donna in tutta la sua bellezza. Abbigliata con un'ampia sopravveste in stile fiammingo che le metteva in evidenza la vita sottile e il seno florido la sua carnagione era di un pallore lunare. I capelli biondissimi erano acconciati in un bandeaux che le incorniciava il volto e lasciati ondeggiare sulle spalle. Improvvisamente come fosse giunto lì e soprattutto perchè, perse ogni interesse per lui.
«E' da molto che sono qui Madame?»
«No. La notte è ancora giovane e a nostra disposizione.» Gli disse la donna sorridendo senza scoprire i denti. Era già la seconda volta che lo faceva, forse gliene mancava qualcuno, pensò Jean sedendosi sul letto e lasciandosi scivolare il lenzuolo fino in vita. Aveva un bel torace, liscio e dai muscoli snelli e lo sapeva. Una linea sottile di peli neri gli percorreva l'addome fino a perdersi nelle lenzuola aggrovigliate. Nero su bianco.
«Non c'era bisogno di rapirmi per assicurarsi i miei favori madame. Sarei stato ben lieto di dispensarveli.»
Lisette si avvicinò al letto sedendosi accanto a lui. «Sarò io a dispensarti i miei favori e sono sicura che li apprezzerai per quel che valgono.» Gli sussurrò giocando con i ricci neri che gli arrivavano alle spalle, ancora legati in una coda bassa.
«Non ho dubbi mia signora.» Le rispose Jean cedendo alla tentazione e sfiorando quella mano liscia e morbida.
«E' qualche settimana che ti osservo Jean Berthier.»
«Sono onorato di essere degno della sua considerazione»
«Oh sei più che degno mio caro Jean, degno dell'attenzione di Bellemorte in persona.» Lui la fissò senza comprendere e la voce di lei si abbassò di un paio di ottave, densa, cospiratrice. «Ti ho visto andar per bordelli, ubriacarti fino allo stordimento, giocarti ai dadi ogni bene, vincere e perdere.» Glielo disse accarezzandogli una guancia con tenerezza, come avrebbe potuto fare Maman, facendolo arrossire. «Non sei stanco?»
«Sì» Sussurrò lui, ed era vero. Stanco di combattere, stanco di sopravvivere.
«Cosa desideri di più al mondo?»
Il potere, pensò senza osare profferirlo. Potere per riscattare Maman e Claudette, potere per vendicarsi dei Vertdulac, che l'avevano usato e buttato come spazzatura inutile appena Francois era cresciuto, che avevano rovinato per sempre Claudette, potere per sentirsi finalmente al sicuro.
«Io ti posso dare ciò che cerchi e anche di più.»
«Come ha fatto?»
«Io ti leggo dentro Jean, sei trasparente come l'acqua, sei un libro aperto.»
La frase lo infastidì, raffreddando i suoi sensi più efficacemente di una doccia gelata.
«Non desideri l'eterna giovinezza, l'eterna bellezza?» Continuò implacabile la donna. «Non ti tasti il volto al mattino cercando i segni di quella vecchiaia che rifuggi ma che prima o poi ti raggiungerà? Non ti conti i denti sapendo che prima o poi dovrai regalarli al tempo che passa?»
Jean maledì la sua pelle pallida sentendo nuovamente il sangue affluirgli nelle guance. «La bellezza è l'unica risorsa che ho Madame. Tremo al pensiero di perderla.»
«Grazie al mio dono non la perderai.»
«Di cosa sta parlando Madame?»
La voce di Lisette riempì la stanza rincorrendosi sulle pareti, un vento freddo le fece turbinare i capelli, spegnendo il fuoco nel camino. «Davvero non hai capito cosa sono?»
Gli sfiorò le labbra in un bacio lieve. Un tocco casto che fu capace di incendiargli il corpo e la mente come mai gli era successo prima.
«Sei una maga?» Le chiese in un soffio, le labbra che gli bruciavano, che ardevano per essere baciate.
Lisette sorrise, snudando le zanne. «Sono un vampiro.»

Ti ricordi Maman, quando andavamo in chiesa la domenica? Com'era bella Arles in primavera e com'era bella St. Trophime nella luce del mattino, com'erano azzurre le sue colonne. Io avevo paura dei bassorilievi all'ingresso, dei dannati trascinati all'inferno nudi e in catene e tu mi consolavi tra le tue braccia. Avevo quattro anni e tu mi dicevi che avrei potuto essere un angelo. Come ti sbagliavi Maman, come ti sbagliavi.

Jean non osò alzare lo sguardo, fissandolo ostentatamente sulla pediera intagliata del letto. «E cosa dovrei fare per essere quello che tu sei?»
«Devi volerlo, solo volerlo.» Gli rispose Lisette rialzandogli il mento con la mano e costringendolo a guardarla. I suoi occhi erano solo occhi.
«Come?»
«Servono tre morsi rituali in cui tutto il tuo sangue deve essere succhiato.» Gli spiegò lei. «L'ultimo è il più importante, è il momento cruciale. Solo una ferrea volontà di sopravvivere può sconfiggere la morte, la magia da sola non basta.»
Un soprassalto di orgoglio lo investì malgrado la paura. «E se rifiutassi?»
Ancora tenera, da madre. «Toccati il collo.» Jean obbedì sentendo con i polpastrelli due piccoli rilievi in corrispondenza della giugulare. Era già stato morso, chissà quante volte. «Ma allora non ho mai avuto scelta!»
«Certo che ce l'hai. Puoi scegliere tra vivere in eterno o morire.»
Jean sgranò gli occhi. «Sarò immortale?»
«Finchè eviterai la luce del giorno. Gli oggetti sacri possono ucciderci. L'argento.»
«Sarò potente?»
Gli occhi di lei si incupirono, un' ombra fuggevole le pesò sul cuore, ma quando rispose lo fece con la forza risplendente della verità. «Più potente di qualsiasi mortale.»
Jean si abbandonò sui cuscini chiudendo gli occhi. Per un attimo fece finta di esser altrove. Era con Claudette allo stagno, gli spruzzi d'acqua lo facevano ridere e i fenicotteri erano una nube rosa che starnazzava.
«Hai scelto?» La voce di Lisette fu come un sasso in quello stagno. I fenicotteri sparirono e con essi Claudette. Cercò di concentrarsi per farli comparire nuovamente. «Lo sai cosa ho scelto».
«Lo devi dire ad alta voce.»
Jean aprì gli occhi abbandonando definitivamente i suoi sogni. «Sì.»
«Sì, cosa?»
«Sì, voglio vivere.»

Il terzo morso. Solo qualche goccia di sangue mi separa dalla morte o dalla vita eterna. Ti ricordi Maman? Mi dicevi di avere fede in Dio, mi dicevi di credere, di credere in Lui, di credere che un giorno ci avrebbe aiutato. Dov'era quando mi hai venduto per darmi da mangiare? Dov'era quando il Conte mi batteva al posto di Francois? Dov'era quando quel bastardo si prese la mia Claudette? Dov'era quando piangeva tra la paglia? Si era scordato di noi Maman. E ora avrà la scusa per farlo per sempre. Ma sono io che gli volto le spalle, sono io.
«Devi scegliere un nome mio caro.» Lisette aveva abbandonato il suo collo e ora gli cullava dolcemente il capo, appoggiato sul seno morbido. «Quando ti risveglierai a nuova vita avrai solo il nome a seguirti nei secoli. L'ultima eredità.»
Un nome. Un nome. Com'è lontana questa voce. Com'è lontano tutto. Buio, è tutto buio. Le palpebre sono così pesanti. Sono così stanco eppure voglio vivere. Voglio vivere. Non ti vedo più Maman. Non ti vedo più Claudette. Claudette, sorellina adorata. Claudette. Un nome. Un nome.
«Jean-Claude. Chiamatemi Jean-Claude»

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