martedì 17 marzo 2009

Bellemorte 420 a.c.


“I gazed up at her, and her face was like something carved of alabaster, with lips red and perfect, hair like the darkness of night made into furred silk, falling around her nude perfection like a veil. Her eyes were pale brown, like dark honey. I knew it was Bellemorte, as if I'd always known her face.”

-Narcissus in chains-

Belle si ammirò distrattamente in uno dei grandi specchi del corridoio. Non aveva bisogno di guardarsi per sapere che era semplicemente perfetta eppure non riusciva a fare a meno di ravviarsi ora una ciocca dei lunghi capelli corvini, ora il fichu che le orlava la profonda scollatura.
Si sventagliò le guance leggermente arrossate dal fard riportando la sua attenzione alla vampira che aveva di fronte, Musette. «Hai fatto accendere il caminetto nella stanza delle rose?»
«Sì, mia signora.»
Belle annuì soddisfatta: il suo secondo in comando non brillava per fantasia e intraprendenza fuori dalla camera delle torture, ma era un elemento su cui di solito si poteva contare. «E hai fatto preparare il vino e le olive?»
«E’ tutto pronto» rispose l’altra, chinando la testa in segno di ossequio. «Esattamente come la mia signora ha ordinato.» Bellemorte chiuse con uno scatto secco il ventaglio d’avorio che teneva tra le mani. «E sarà meglio che sia così mia dolce Musette o ne risponderai personalmente.»
Musette guardò Bellemorte scivolare lungo il corridoio con la sua andatura morbida e ancheggiante, mentre una vampira che dimostrava non più di sei anni faceva capolino dal rifugio sicuro delle sue crinoline. «Si può sapere che sta succedendo?» le chiese questa atteggiando le labbra in un broncio fanciullesco che ormai da tempo non le si addiceva più: già due secoli erano passati da quando un vampiro pazzo l’aveva trasformata. «Non ho mai visto Bellemorte così agitata.»
«La nostra signora non è agitata Valentina, è semplicemente attenta ai dettagli.»
«Allora diciamo che non l’ho mai vista così dedita ai particolari Musette.»
La donna corrugò la fronte liscia, mentre una smorfia di disappunto le guastò il bel viso. «E’ l’ospite misterioso mon petit chou.»
«L’ospite misterioso?»
«Non te ne eri mai accorta Valentina?» le fece notare l’altra. «Viene tutti gli anni a dicembre, resta per tre giorni e poi se ne va. E’ sempre incappucciato e ha contatti solo con Belle. Molti ci hanno provato» concluse Musette aggrottando le scure sopracciglia. «Ma nessuno è riuscito a scoprire chi sia.»
«Un amante?» suggerì la piccola.
«No. Ce ne saremmo accorti.»
«E allora chi?»
«Non lo so mon petit chou» sospirò Musette. «E’ un mistero, un vero mistero.»

Bellemorte era seduta sulla poltroncina Luigi XIV davanti al camino acceso, intenta a contemplare il piccolo giardino d’inverno visibile dalla parete a vetri. Dato il periodo, lo abbellivano solo sempreverdi ed ellebori mentre le rose che tanto amava e che davano il nome alla stanza dormivano il sonno del giusto sotto la pacciamatura. La luce fredda della luna e quella calda delle fiamme giocavano a rincorrersi sui nudi rami, trasformando spine e tralci in uno spettrale ricamo.
La vampira afferrò lo stelo di un calice di cristallo dal tavolo da caffè e lo osservò in controluce, rigirandolo tra le dita. Lo portò al viso e ne aspirò a fondo l’aspro aroma resinato prima di sorbirne un piccolo sorso. Chiuse gli occhi, abbandonandosi con un sospiro sullo schienale imbottito. Parigi scomparve. L’elaborata cornice di marmo del camino e i delicati affreschi floreali sparirono lasciando il posto al cielo azzurro di agosto e al calore del sole sulla pelle.
Atene la accolse nuovamente nel suo rude abbraccio, come già aveva fatto più di duemilacinquecento anni prima.
Con quanta cura aveva preparato il suo ingresso in società! Lei, emigrante da Mileto e convinta di trovare la vera civiltà nella culla della democrazia.
La solitudine aveva iniziato a pesarle dopo i primi giorni: era giunta al seguito di Alcibiade il vecchio, figurando come la sorella nubile della moglie del nobile ateniese e le uniche possibilità di svago concessale erano confinate all’ambiente familiare. Uno svago che per lei era alieno.
Non poteva trovarlo nelle donne, rinchiuse nei ginecei, rassegnate e stanche, terrorizzate dai mariti e scialbe nella loro totale ignoranza. Lei che era stata allieva di Gorgia[1] non desiderava certo quelle donnesche confidenze fatte di sospiri e meschinità, di luoghi chiusi e faccende domestiche, di poche parole senza spessore. Doveva uscire da quel vicolo cieco: voleva essere conosciuta e stimata per il suo cervello e non per la sua abilità nel gestire la casa e nel custodire mazzi di chiavi.
Aveva indossato la sua tunica più bella, aveva sciolto i lunghi capelli, aveva truccato gli occhi col carbone ed uscita da quella prigione aveva affrontato il mondo.
Non aveva visto altre donne, a passeggio. Solo uomini. Uomini rumorosi e rissosi, che strappati alle loro conversazioni oziose, si erano girati a guardarla con audacia e sfrontatezza. Quegli sguardi, trasudanti erotismo e voluttà, l’avevano ubriacata, l’avevano spinta a concedere sorrisi, a inseguire confronti e a cercare amicizia.
Non l’aveva trovata.
Non l’aveva trovata in quegli uomini che le avevano offerto sesso e denaro ma non stima.
Scoraggiata, ne aveva affrontato uno, uno qualsiasi e così le era stato risposto. «Mia cara, se vuoi vendere il tuo corpo, aspetta che sia io a cercarlo. Se cerchi uno sposo, usa un lanternino. Nessuno sposerà una meteca, una straniera. Nessuno genererà figli che non potranno partecipare alla vita pubblica. Nessuno né per amore né per denaro accetterà una non cittadina.»
Ma qualcuno l’aveva fatto, qualcuno che l’aveva iniziata alla vita pubblica con la dignità che le competeva.
Qualcuno che non aveva trovato motivazione né nel sesso né nel denaro, ma solo nell’amore della parola e nella sua forza.
La porta si aprì silenziosa e l’aura di potere che si sparse per la stanza riportò Belle nella Parigi del duemila. La vampira si concentrò un breve istante per sincerarsi che le sue istruzioni fossero state eseguite e che lei e il suo ospite fossero completamente soli. Poi sorrise maliziosa all’indirizzo della figura incappucciata che le si era materializzata davanti. Gli occhi d’ambra scintillarono seducenti e la sua voce vellutata danzò inebriante nell’aria.
«Ti saluto, Socrate, mio indisciplinato studente.»
L’uomo si tolse il cappuccio, rivelando la testa canuta e la barba ricciuta del famoso filosofo. «Ti saluto Aspasia, mia amata erotodidaskalos[2]
Socrate lasciò cadere il mantello a terra e si sedette davanti al fuoco accanto al suo anfitrione. Occhieggiò con cupidigia i piatti e i bicchieri posati sul tavolino mentre un sorriso ironico fece lampeggiare le zanne tra i baffi ancora folti. «Crudele Aspasia, anche quest’anno mi fai trovare le olive nere di kalamata.» Il filosofo prese la ciotola che le conteneva e le annusò estasiato. «Anche quest’anno dovrò subire il dolce supplizio di sentirne la fragranza e poter solo immaginare la polpa succosa che si scioglie in bocca.»
Belle rise di gusto, senza alcuna traccia di potere nella voce. «Supplizio amico mio? Io non parlerei di supplizio alla mia corte. Forse la parola giusta è tentazione.»
«E cosa è mai la tentazione?» chiese Socrate con voce scherzosa, posando nuovamente la ciotola.
Belle sbuffò. «Per favore vecchio satiro… non ho bevuto abbastanza retsina per cadere così su due piedi nei tuoi tranelli da quattro soldi. L’ironia socratica lasciala agli stolti.»
«Ma io inseguivo innocentemente il tuo sapere dal basso della mia infinita ignoranza» protestò scherzosamente l’altro.
«Già ho dovuto perdonarti per aver abbandonato lo studio della parola in favore della tua rozza dialettica. Maieutica…» Belle sputò quasi la parola. «Se mia madre avesse fatto un lavoro così rozzo non ne sarei stata tanto orgogliosa.»
Socrate si strinse nelle spalle. «Lei faceva partorire le donne, io le anime.»
«Lo sgravio dell’anima nella maggior parte dei casi è un abominio della natura e decenza vuole che sia abortito prima di nascere.»
«Ma posso io sapere se un’idea è buona o se meriti l’oblio?» ribatté l’altro riempiendosi un calice di retsina. «Io non so nulla, l’unica cosa che so è di non sapere.»
Belle si lasciò andare a un finto sbadiglio, riparandosi la bocca col ventaglio. «Sei ripetitivo amico mio e lasciatelo dire: non sei l’unico a saperlo, anch’io lo so.»
«Che tu non sai?» le disse Socrate strizzandole un occhio.
«Che tu, non sai. Vuoi far partorire un uomo senza accorgerti di quanto ciò sia un’aperta contraddizione in termini: il parto è dolore e nessun uomo vuole soffrire.» Belle scosse la testa. «La tua levatrice è solo un palliativo.»
«Eppure anche tu ne hai avuto bisogno. Non fosse stato per Polissena i figli di Pericle non avrebbero mai visto la luce.»
Il volto di Belle si fece vuoto e immobile come quello di una bambola. «La luce dei miei figli si è spenta da secoli così come quella del mio amato Pericle. Non è cortese da parte di un vecchio amico ricordarmelo.»
«Ti chiedo scusa Aspasia» sospirò l’uomo. «Io ti chiamo col tuo antico nome eppure faccio fatica a ricordare chi eri.»
Belle chiuse gli occhi. «A volte io stessa faccio fatica.»
«Non eri tu a sostenere che l'esercizio dell'arte della parola e della filosofia non sono tra loro incompatibili? Che il Vero e il Bello non sono categorie inconciliabili, ma due aspetti di una stessa elevazione dell'anima il cui nesso è l'eros? Dove è finita quell’Aspasia?»
«Aspasia è morta Socrate» disse la vampira. «Bellemorte è rinata dalle sue ceneri per credere solo nell’hedoné.»
«L’hedoné» ripeté Socrate con disprezzo.
Belle ridacchiò stancamente. «Ah se ti avesse sentito Aristofane[3]! Come avrebbe potuto descriverti come un perdigiorno seduto a mezz’aria su un pensatoio e tutto intento a corrompere la mente dei giovani?»
Socrate fece schioccare la lingua in segno d’apprezzamento. «Effettivamente il mondo avrebbe perso una commedia divertente.»
«Tu disprezzi il piacere fine a sé stesso: l'uomo non è essenzialmente il suo corpo, ma la sua anima. La cosa più importante, ciò che davvero vale è l'anima, che infatti è di livello superiore al corpo e dura oltre il corpo. Non era questa la tua tesi?»
«Sì, era questa.»
«E cos’è l’anima?»
Sul brutto volto dell’uomo si dipinse un sorriso genuino. «Rivolgi contro di me le mie stesse armi?»
«No amico mio» rispose Belle seria. «Non ci sono armi e non c’è vittoria. Semplicemente non abbiamo anima e il corpo è l’unica cosa che ci resta.»
«E’ vero» ammise l’altro abbassando gli occhi. «Ho rinunciato all’anima pur di vivere e continuare la mia ricerca.»
Lo sguardo di Belle si fece lontano, perso nei labirinti del tempo. «Mi ricordo ancora il tuo discorso "O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura?[4]".»
Socrate rimase in silenzio.
«Non trovi paradossale che mentre esortavi l’ateniese a dedicarsi alla propria anima tu perdevi la tua?» continuò Belle.
Socrate trangugiò un ultimo sorso di vino. «L’uomo è debole, Aspasia, e tu sei stata la perfetta tentatrice.»
«Non vestirò i panni dell’Eva di turno mio buon amico» disse Belle alzandosi e cominciando a camminare avanti e indietro di fronte al fuoco. «Anito e Licone contavano probabilmente sul tuo esilio volontario, com'era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora, ma tu non volesti abbandonare la città e ti sottoponesti al processo. Te lo ricordi l’atto di accusa? "Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità . Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani. Si richiede la pena di morte". Punto.»
«Mi ricordo.»
«Dannato testone» si infervorò Belle. «Io ti offrii un’opportunità di salvezza dopo che avevi rifiutato l’aiuto dei tuoi sostenitori! Ma Socrate il retto non poteva ritrattare, non poteva contravvenire alla legge! La legge si può criticare, ma non violare. Con il mio bacio oscuro ti ho salvato la faccia agli occhi dei posteri!»
«Come potevo riconoscere di negare l’esistenza degli dei se credevo nei daimon[5], i "figli delle divinità"? E’ ovvio che credendo nei loro figli creda anche nelle divinità: perchè ci sia il figlio, ci devono anche essere il padre e la madre!»
L’ira di Belle si sciolse come neve al sole. «Nessuno dei tuoi sostenitori ha capito davvero cosa rappresentava per te il daimon.»
«E come potevano? Forse Platone è l’unico ad essercisi avvicinato chiamandolo angelo custode, dono divino per i buoni.»
«E tu saresti il buono?» chiese la vampira inarcando un delicato sopracciglio.
«Non lo so Aspasia, ma tu sei un dono divino. Sei tu il mio daimon.»
«Sono solo un’amica, Socrate» sospirò Belle. «Un’amica che moriva di solitudine.»
«Deve essere stato difficile per te: abbandonare i tuoi figli, Pericle, il tuo posto nella società.»
«I miei figli» si dolse Belle. «Li ho visti invecchiare e spegnersi pian piano senza poter far nulla.» La donna bevve un altro sorso di vino. Fingere la morte e lasciare i suoi cari era stata la prova più dura da superare, anche se ne era valsa la pena. «Ho rivisto Pericle malato di peste e mi ha scambiato per un’allucinazione. Non ho potuto dirgli alcunché.» La vampira restò qualche secondo in silenzio, persa nei suoi pensieri mentre Socrate attendeva, e poi continuò. «Il posto in società è l'unico che non rimpiango. L'ho mai avuto davvero? Ho inseguito un sogno che aveva il sapore di realtà ma che alla fine si è rivelato fragile e inconsistente o le accuse di empietà che mi sono state rivolte non avrebbero mai avuto seguito. Ti ricordi Demostene?»
«“Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per le cure quotidiane, le mogli per darci dei figli legittimi ed essere le custodi fedeli delle nostre case”» declamò Socrate con voce stentorea. «Nessuno si aspettava che Pericle, primo cittadino e quindi teorico esempio di virtù private, potesse ripudiare un’ateniese per sostituirla con una straniera.»
«Già» commentò amaramente Belle. «Nessuno trovava scorretto che Pericle amasse i fanciulli, né che maltrattasse la prima moglie, ma ci si scandalizzava che considerasse una meteca un essere umano, che vivesse con lei invece di relegarla nel gineceo, che invitasse a casa sua gli amici con le loro mogli. La goccia che fece traboccare il vaso furono quegli idioti di Ermippo e di Aristofane[6] che mi accusarono di essere la consigliera e l'ispiratrice della politica imperialista periclea.»
«Uomini stolti che credevano di servire il bene facendo il male» commentò Socrate.
«Dovevo tornare nella mia Mileto, dove uomini e donne discorrevano tra loro e dove non c’era questa scellerata dicotomia, per cui la donna era sciocca, o puttana.» Improvvisamente la vampira proruppe in una gran risata. «Non è fantastico? Mi hanno accusato di essere un’etera, una corruttrice dei buoni costumi della polis e delle giovani ateniesi e non lo ero[7].» La risata pian piano si spense lasciandole un guizzo birichino negli occhi d’ambra.
«Se mi vedessero adesso… la regina delle puttane, con un potere che mai nessuno di loro si sarebbe neanche sognato. Ho avuto in pugno re e imperatori e ho governato dal mio letto l’Europa intera!»
«Cosa ti convinse amica mia?» le chiese il filosofo. «Le accuse che mi hai rivolto poc’anzi le rivolgo adesso a te. Ti avremmo salvato Aspasia, la polis si sarebbe accontentata di un esilio. Fu per orgoglio?»
La vampira scosse la testa. «Io, Bellemorte, la tentazione personificata, a mia volta cedetti alle lusinghe di un sogno che non scivolasse via come sabbia tra le dita.»
«Chi è stato Aspasia? Chi fu a tentarti?»
«Me lo chiedi ogni anno.»
«E tu ogni anno eviti di rispondere.»
Belle si alzò, lisciandosi i drappi di pizzo che le ornavano l’ampia gonna. «E anche questa volta andrà come deve andare. Vai Socrate! Alphonse ti aspetta nella tua stanza: è un mannaro sedicenne che ho addestrato personalmente» la vampira ridacchiò maliziosa. «Pensando a te e al tuo disprezzo per l’hedonè…»
Socrate ebbe il buon gusto di arrossire. «Le passioni e il piacere non collimano sempre con la razionalità: non sono negativi in sé, ma devono essere dentro l’armonia e la misura dettate dalla ragione.»
«Non pensare alla ragione amico mio. Vai e divertiti» lo esortò Belle abbracciandolo. «Domani sera continueremo il nostro comune cammino verso la verità.»
Socrate si era già ritirato da più di un’ora quando la vampira uscì dalla stanza e percorse lentamente uno dei lunghi corridoi della sua residenza, fermandosi ora su una soglia ora sull’altra, sedotta dai gemiti che ne prorompevano. Ammirò il contorcersi dei corpi pallidi nelle alcove, assimilando con voluttà l’energia e la sensualità che ne emanava. Si leccò le labbra con soddisfazione: questi erano i suoi figli, il suo mondo, il suo insegnamento. Una scuola dura forse, ma necessaria alla loro sopravvivenza. Nessuna ribellione era tollerabile, nessuna pietà, nessuna esitazione. Solo il rimorso era concesso, un piacere da concedersi raramente e in privato. Socrate l’aveva chiamata il suo daimon, il suo angelo custode. Il filosofo invece era la sua coscienza, il momento dei rimpianti e dei ricordi.
La vampira giunse in fondo al corridoio, aprì una porta sulla destra e dopo aver sceso due rampe di scale e una piccola anticamera si trovò in una stanza buia e circolare.
La tentazione, pensava Belle, la tentazione era venuta a cercarla nei panni di una dea, aveva creduto allora. Ancora non era stata incarcerata, ancora il giudizio finale non era stato pronunciato, ancora era una donna libera. Libera di scegliere. In quei lunghi momenti di attesa aveva vagliato la sua vita, pesandola con la sua implacabile bilancia e trovandola manchevole. Non era cambiato nulla da quando aveva varcato per la prima volta la soglia di Atene: le sue conquiste erano state solo un’illusione.
La donna percorse il perimetro della stanza accarezzando le alte finestre che davano sul niente. Sì, sul niente, sul buio. Un buio così completo e totale da poterlo quasi toccare con mano. Lo stesso buio che l’aveva avvolta nella sua casa ateniese quella notte di duemila e cinquecento anni prima, che l’aveva penetrata in ogni poro, l’aveva soffocata, l’aveva lasciata a terra tremante. Riuscendo a malapena ad alzare la testa aveva visto l’oscurità prendere forma e sostanza e farsi donna.
«Ecate[8]» aveva sussurrato Aspasia. «O signora dell’inferno, delle evocazioni, degli incantesimi e dei fantasmi! O Dea! Mai ti ho mancato di rispetto, mai ho mancato i sacrifici. In cosa ha fallito questa tua figlia?»
«Dea» rispose la donna. «Mi piace. »
«Non sei una Dea?»
«Sono quello che vuoi piccola Aspasia. Sono quello che la tua mente umana è in grado di capire e di affrontare.» Aspasia rabbrividì sotto il tocco della sua voce, eterea e impalpabile come filo di ragno.
«Vuoi che sia una Dea? Vuoi che sia la Grande Madre? Vuoi che sia Ecate? Nyx[9], la notte? Vuoi che sia uomo, vuoi che sia donna? Io sono tutto questo e anche di più. Io sono la Madre di tutte le Tenebre, sono quello che desideri di più al mondo.»
«Come puoi sapere quello che desidero?»
«Non mi hai definito una dea? Non è prerogativa degli dei sapere cosa alberga nei vostri piccoli e inutili cuori?» disse la tenebra sfiorando i capelli della donna.
«In questi ultimi anni ho seguito da vicino i tuoi passi Aspasia. Attraverso i miei figli ho partecipato ai tuoi convivi, ho ascoltato le tue argomentazioni, ho ammirato la tua bellezza.»
«I tuoi figli?»
«Se avrai il privilegio di incontrarli li riconoscerai immediatamente.»
Belle proruppe in una risatina isterica ripensando al momento in cui Mr. Oliver le era stato presentato. Anche l’oscurità aveva il senso dell’umorismo.
«Cosa vuoi?»
«Voglio te Aspasia. Voglio creare una stirpe che ammali gli umani con la sua bellezza e la sua arguzia. Voglio che al timore si affianchi la reverenza, al terrore la grazia, alla morte la bellezza. Voglio sedurre il mondo intero piccola sofista. E chi meglio di te può incarnare tutto questo? Tu sarai la mia Bella Morte.»
Un empito di orgoglio le colmò il cuore e da quel momento, lo capì subito, fu perduta. «Cosa mi offri?»
«Ti offro la vita eterna Aspasia, ti offro il potere supremo, ti offro me stessa.»
«A cosa dovrò rinunciare?» chiese la donna in un soffio.
«E’ importante»? sussurrò il buio scostando i lunghi capelli dal collo di Aspasia e accostando le labbra alla pelle liscia.
Aspasia chiuse gli occhi e sorrise. «No. »
La vampira si affacciò a una di quelle finestre respirando il buio. Lentamente dal nulla comparve la volta di una caverna enorme, poi un letto. Un letto in cui una forma coperta da lenzuola si agitava senza requie.
«Dormi mammina, dormi» sussurrò Belle. «La tua bimba ti veglia con amore.» Duemilacinquecento anni prima L’oscurità le aveva offerto sé stessa. Era venuto il momento di accettare l’offerta. Con gli interessi.


[1] Il più famoso sofista dell’epoca
[2] Maestra d’amore
[3] Compositore della commedia “Le Nuvole” in cui ridicolizza la figura di Socrate
[4] Platone, Apologia di Socrate
[5] Uno dei capisaldi della filosofia socratica

[6] Esponenti della corrente dei Comici
[7] Alcuni riportano di un processo per empietà subito da Aspasia non suffragato però da documenti storici. Io ho utilizzato questa ipotesi.
[8] Dea infernale dell’Asia minore
[9] Dea della notte contrapposta al giorno

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